Venti anni dalla morte di Yitzhak Rabin, primo ministro israeliano assassinato nel 1999 con tre colpi di pistola e che aveva portato un contributo importantissimo per la pace in Medio Oriente. Amos Gitai realizza un film molto complesso e stratificato, al di là delle sue chiarissime posizioni, che avvita passato e presente offrendo una lettura importante sulla questione arabo-israeliana.
L’assassino di Rabin, un ragazzo di 25 anni, studente ed ebreo ortodosso, viene immediatamente assicurato alla legge il 4 novembre di quell’anno. Gitai si serve sin da subito di materiali documentali cercando di investigare dentro l’immagine stessa, sgranando sempre di più la digitalizzazione degli archivi, un’operazione che procede in parallelo con la ricostruzione di quelle stesse immagini, dei processi, delle tesi contrapposte sulle origini di quel terribile evento, rivelando così una cultura dilaniata dall’estremismo religioso e da una dicotomia all’interno di Israele che oppone quello che Gitai definisce come “progetto politico” alle istanze dell’ortodossia religiosa. La preoccupazione che Gitai ha espresso anche qui a Venezia durante la conferenza stampa per il film, ovvero quella di una crescente ala ortodossa del paese che sopratutto oggi mina dall’interno le fondamenta di una società secolare, reagisce con le immagini del suo film in modo flagrante, tanto da trasformarle in un documento dalla forza quasi Markeriana, per il modo in cui supera l’inerzia dell’immagine commemorativa o di repertorio, aprendo dal passato una feritoia sul presente, attraverso la quale poter osservare e recuperare la lezione di Rabin come l’istanza più importante di un processo di pace che non è ancora stato completamente vanificato.
Gitai mette se stesso dentro al film proprio nella sequenza dell’assassinio ricostruita, come testimone tra i testimoni; la ragione è certamente emotiva, ma allo stesso tempo rappresenta la possibilità di un superamento del materiale rispetto alla retorica sulla veridicità dei grandi archivi digitali che sembrano moltiplicare, in assenza di un linguaggio oltre che di una prospettiva politica, quell’avvitamento tra vero e falso che dalle immagini di Zapruder in poi ha costituito la base cognitiva per interpretare l’ipertrofia dei nuovi media, in quell’orizzonte negativo che un filosofo come Paul Virilio chiamerebbe megaloscopico.
La verità per Gitai è quindi nella possibilità di ricombinare il materiale in un potente film-saggio che interagisca con gli archivi e la memoria storica, frapponendo il movimento nel pianosequenza che ha attraversato tutta la sua filmografia, quasi una definizione dello statuto del cinema come ricerca della verità. L’occhio allora arriva dove il documento si ferma, entra dentro la macchina di Rabin avvicinandosi al sangue delle sue ferite; segue le posizioni della comunità ortodossa e si colloca nelle loro consultazioni, cercando di sfondare l’impenetrabilità del dogma mentre si decide per il Din Rodef contro Rabin, ovvero il diritto ad uccidere secondo una legge del Talmud; filma l’assassino mentre carica la sua pistola, quasi allineando alla follia dell’atto la lentezza del gesto rituale.
Nel passaggio tra documento e ricostruzione, Gitai delinea una lettura politica parallela sul ruolo dei coloni nei territori della Cisgiordania. Sono frammenti, che alternano le immagini della campagna denigratoria allestita e sostenuta dal Likud contro Rabin alla distruzione delle baracche alla periferia di Ramallah operata dall’esercito Israeliano.
Il metodo storico di Gitai è di tipo combinatorio, non parte da una tesi, ma realizza un processo di conoscenza che mette sul tavolo numerosi stimoli, cercando proprio nei documenti, nelle interviste, nelle immagini di repertorio e persino nel volto di Netanyahu il seme di una violenza che si è saldata con il potere. Rifiuta la tesi del complotto, ma chiarisce quanto la cultura ortodossa sia diventata braccio e strumento di un disegno politico che ha ostacolato Rabin e sta ostacolando l’eredità di una via importante.