In “Veri Dèi”, uno dei corti del film collettivo intitolato Words With God, Warwick Thornton raccontava la tradizione animista entrando direttamente dentro il “tempo fuori dal tempo” dell’esperienza spirituale aborigena.
Quello stato del sogno che attraversa molto cinema australiano, dal cammino iniziatico di Walkabout (Roeg) fino a L’ultima Onda (Weir) ma anche titoli meno noti come My Survival as an Aboriginal (Coffey), Next of Kin (Williams), diventa elemento centrale nel nuovo film asciuttissimo e scabro di Warwick Thornton, autore australiano la cui ricerca non si è mai separata dall’interesse per la cultura dei nativi.
Rispetto a Samson & Delilah e a The Darkside, Sweet Country indaga le ragioni fondative di un’occupazione raccontando gli anni venti del novecento, quando il Native Affairs Act regolava la vita degli indigeni australiani con un protetettorato che di fatto li rendeva schiavi e soggetti ad infiniti abusi.
La storia di Sam, aborigeno accusato della morte di un tracotante proprietario terriero bianco è ispirata a quella di Willaberta Jack, una delle vicende più tragiche tra quelle che caratterizzano la storia australiana dei primi decenni del novecento. Già oggetto di un documentario di 26 minuti diretto da David Tranter nel 2007 e prodotto dal CAAMA, fondato tra gli altri dalla madre di Thornton, Freda Glynn, serve a Warwick Thornton come spinta per una drammaturgia più complessa, condivisa con lo stesso Tranter, sceneggiatore di questo e altri film del regista di Alberta Springs.
La ricerca è radicale in ogni senso, a partire dal retaggio di Thornton e Tranter, Kaytej il primo, Alyawarra il secondo, fino alla documentazione fotografica tra gli anni venti e i trenta, quasi sempre contestualizzata dalle necessità dell’impero britannico, contrasto che viene chiaramente esplicitato quando nel territorio bianco in cui si svolgerà a breve il processo per omicidio contro Sam nel rifiuto totale delle leggi della madrepatria, vengono proiettate le immagini di The Story of the Kelly Gang, film australiano del 1906 dalla durata eccezionale (un’ora), chiaramente dalla parte dei fratelli Kelly e contro la polizia vittoriana.
Thornton cura anche la direzione della fotografia e realizza un film dai toni grigi come quelli di un dagherrotipo ma senza indugiare nell’evocazione di tonalità d’epoca. Non dipinge con il sangue come John Hillcoat, interessato allo spazio e al tempo, monta il film sfruttando le capacità pre-cognitive del “Dreamtime”, nel tentativo di costruire una narrazione evocativa, più vicina per certi versi al cinema di Nicolas Roeg che a quello di Sergio Leone, influenza che Thornton ci tiene a citare.
Ad eccezione della voce di Johnny Cash che chiude il film, Sweet Country si affida solo ai suoni del racconto e dell’ambiente, in una definizione aspra e senza compromessi dell’outback.
Il sogno, anche quando assume l’apparenza di un flashback o di un flashforward, contamina a poco a poco il film senza alcuna marcatura onirica. Sono i dettagli che interessano a Thornton, come forza distruttiva della stessa linearità del racconto, tanto da trasformare una delle scene più intense di tutto il film, quella dove il sergente Fletcher (Bryan Brown) trova finalmente l’acqua, in un miraggio crudo e irrimediabilmente legato alla conoscenza del territorio.
In questo senso anche l’orologio rubato da Philomac (Tremayne Trevorn Doolan) allude in un certo senso alle facoltà di interpretare il tempo, proprio quando la complessa storia di formazione del ragazzo, sembra vivere a metà tra le lusinghe di una cultura che gli ha strappato la terra e le proprie tradizioni.
Quando i bianchi decideranno, come Ned Kelly, di ignorare la legge e in questo caso il verdetto di innocenza, giustiziando Sam con una fucilata mentre procede verso la libertà, si ha la sensazione che Thornton racconti un’altra storia, anche rispetto alle infatuazioni rivoluzionarie del cinema degli anni settanta.
Un rovesciamento sottile come la chiesa eretta da Fred Smith (Sam Neill) immediatamente dopo l’esecuzione sommaria di Sam, nuova legge tra la libertà dei nativi e la violenza dei bianchi, testimonianza di una cancellazione.