È una questione di prospettiva e Joe Berlinger lo sa. Il suo film non è mai truculento, i corpi delle vittime non sono mai mostrati, le foto sono chiuse in buste sigillate o esposte di fronte a una giuria. Non ci sono schizzi di sangue, teste mozzate, strumenti di tortura, ogni macabro elemento è sottratto alla vista dello spettatore. Perché mai? Sappiamo tutti con quanta efferatezza quei crimini sono stati compiuti, Ted Bundy ha ossessionato l’intero continente americano per anni. Il motivo è uno solo, Joe Berlinger si aspetta che tu faccia scattare quel meccanismo che in semiotica prende il nome di sospensione dell’incredulità.
Zac Efron è Ted Bundy, ma la lente con cui noi lo vediamo è distorta, è modulata dallo sguardo di un altro personaggio, quello di Liz Kendall, interpretata in modo sublime da Lily Collins. La ragazza, la madre single che con cautela ha lasciato che l’uomo scivolasse nella sua vita. La donna che si è fatta conquistare dalla parte dolce, sexy e amorevole, che lo guarda preparare in cucina la colazione con indosso il grembiule o studiare manuali di giurisprudenza nella biblioteca universitaria, assediato dallo sguardo interessato delle studentesse che gli siedono vicine.
[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#d38613″ class=”” size=””]Lo spettatore vive lo stesso paradosso di Liz. Teme per la possibilità che chiunque possa essere una vittima ma allo stesso tempo ha il dubbio che non sia lui il serial killer che stanno cercando.[/perfectpullquote]
Il film ci dà continui suggerimenti, indizi visivi, la mano di Ted intorno alla gola di Liz durante una scena di sesso, o il modo in cui lui la bacia sulla fronte, un atto di dominio più che di dolcezza, le sue fughe, il suo comportamento irrequieto in qualche modo sempre composto mentre le notizie delle accuse cominciano a sopraggiungere. Un delizioso uomo di famiglia che assomiglia in modo inquietante all’identikit di un assassino. C’è una tensione continua nella prima parte del film, i ricordi di Liz che si intrecciano all’orrore di quello che potrebbe aver commesso in sua assenza. La sua situazione è altalenante, sedotta e spaventata prende decisioni dannatamente stupide mentre lentamente arriva a rendersi conto in quale orribile posizione si sia inserita. I risultati sono strazianti mentre la si vede passare dallo stato di depressione all’alcolismo, al senso di colpa, alla riconquista del suo orgoglio perduto.
Se la prospettiva adottata fin qui ha mantenuto quella tensione drammatica che il regista voleva, a circa metà il film cambia palcoscenico, un’aula di tribunale, un processo teatrale reso fantastico dall’interpretazione di Zac Efron e di John Malkovich. Berlinger torna a vestire abiti più confortevoli, quelli del documentarista. La peggiore decisione che potesse prendere.
I titoli di coda non lasciano dubbi, confermano il lavoro filologico svolto dal regista, ma anche la brusca interruzione di quel soggetto che era stato intrapreso all’inizio, una storia appartenuta a un altro, a Liz che sarebbe dovuta restare protagonista, offrendo i dettagli umani senza umanizzare quello da tutti considerato un mostro.