Nahuel, un ragazzino scontroso sulla soglia della maggiore età, è costretto dalla morte della madre a riallacciare, dopo dieci anni, i rapporti con il padre biologico che ha una nuova famiglia e vive con questa in una bella casa tra i boschi della Patagonia dove lavora come onorato guardiacaccia. La relazione tra i due è burrascosa, ma a suo modo, nel tempo, diviene profonda. Primo lungometraggio di Natalia Caragiola,
cineasta argentina poco più che trentenne che si è già fatta apprezzare con una serie di cortometraggi di
blasone festivaliero, Temporada de caza è un film che intercetta un rinnovato interesse per la narrativa di formazione, la cosiddetta coming-of-age story: è il racconto filmico di un apprendimento emotivo, la lenta trasformazione di un ragazzino aspro e ingordo – d’amore, di cibo, di vita, di adrenalina – in un giovane uomo capace di dominare una grammatica affettiva più adulta. Del cinema argentino recente ricorda un po’
La ricostruzione di Juan Taratuto nella sua poetica del disgelo e della decompressione emotiva, della necessità di una (ri)educazione sentimentale post-traumatica, e un po’ El Clan di Pablo Trapero nella persistenza di un’iconografia paterna non ancora risemantizzata ed anzi incistata nel solco dell’autoritarismo
e della prevaricazione, ma recepisce qualcosa anche da Medianeras di Gustavo Taretto nel ritratto, che pur
trapela dall’intenzione intimista, di una tristezza subtropicale, per citare e un po’ storpiare Lévi-Strauss, dal mesto scoramento di una società, quella argentina, che sembra intirizzita quanto le steppe della sua Patagonia.
Temporada de caza è, così, sul piano concettuale un’opera di ascendenza ‘romantica’: la natura corrisponde all’anima, l’ambiente al temperamento, il torpore che blocca gli ingranaggi affettivi è quello che sigilla i boschi e i deserti di ghiaccio. Tra individuo e mondo non vi è strappo, l’esterno respingente è proiezione di un interno contratto che, solo nella provvidenziale impalpabilità del passaggio e del cambiamento, si ritrova senza accorgersi più vulnerabile alla tenerezza.
C’è una scena nel film particolarmente significativa: Nahuel, a tavola, mangia rumorosamente e rutta a più riprese, vuole provocare il padre allo scontro; quando il genitore cede, i due ingaggiano una rissa, un combattimento, ma il corpo a corpo pian piano lascia spazio all’istinto di protezione e chi guarda non saprebbe più distinguere la violenza dalla prossimità, la brutalità dalla dolcezza.
È, chissà, questa l’idea fondamentale di un’opera che usa la caccia come metafora del viluppo di amore e odio, vita e morte: imparare a conoscere la violenza, integrare l’ingiustizia e la perdita nel nostro orizzonte d’attesa, è l’unico modo per crescere e per costruire, per sentirci un po’ meno sopraffatti. Temporada de caza è, dunque, un film tanto bello quanto convenzionale, toccante quanto prevedibile: la sua grazia speciale, all’interno di una ricombinazione di cliché (nel senso più nobile di costanti cinematografiche e letterarie), risiede in due cose: la bravura degli attori – il protagonista Lautaro
Bettoni certamente, ma anche la giovanissima Rita Pauls, che la regista ha voluto caratterizzata con una voglia sotto l’occhio, una macchia di nascita livida che omaggia, chissà, l’Agatha di Saoirse Ronan di Grand Budapest Hotel, ed ancora il meno giovane Boy Olmi, che ha una parte piccola piccola ma piena di una dolente espressività – e l’uso sapiente del sonoro, che detta i tempi della scansione interpretativa e si fa esso
stesso personaggio.