Tra Duchamp e Wharol, l’arte di Ai Weiwei più che al gioco e alla defunzionalizzazione tende
all’istantaneità. Il suo impegno politico per Amnesty International e la sua condizione di esule uniscono il
gioco combinatorio sulla materia di consumo all’anarchia del gesto che trasfigura la destinazione d’uso degli oggetti attraverso quello sguardo vitreo e disturbante capace di far emergere l’interstizio e l’increspatura. Tra il serpente fatto con gli zaini delle piccole vittime del terremoto avvenuto nel Sichuan nel 2008 e il volto di Dante costruito con i mattoncini della LEGO, c’è la capacità di non arretrare quasi mai di fronte al “sacro” e alla morte. Ecco che The Human Flow mantiene questa connessione concettuale e allo stesso tempo immediata con l’attualità politico-sociale più scottante, da una parte ricercando nella composizione del quadro il senso seriale, e quindi anche cimiteriale, della sua arte, non solo quando gioca con i droni e cala a volo d’uccello sulle baraccopoli e i villaggi temporanei di mezzo mondo, per cercare
simmetrie e forme che lo interessano, ma anche quando avvicina la disperazione e la morte con il suo corpo, seguendo e bissando una troupe di grandi dimensioni con uno smartphone, calandosi direttamente nel flusso umano, con una tendenza al gioco (lo scambio di passaporti con un migrante, la relazione diretta con i bambini) che
spezza la convenzione della “giusta distanza” morale, ma anche quella indifferente e necrofila della società
dell’informazione.
Difficile catalogare The Human Flow in questo senso, tra immagini terribili e testimonianza diretta, l’osservatorio sui migranti che Ai Weiwei elabora nel suo viaggio sui bordi non assume quasi mai la dimensione del reportage o l’invettiva riservata ai travelogue di denuncia, al centro c’è l’azione di un artista che cerca l’intensità nel gesto e la possibilità che questo trasformi materia, percezione e la propria
collocazione rispetto a queste stesse immagini. I centri di accoglienza tedeschi, le baraccopoli turche, Gaza,
i profughi siriani, il confine tra Stati Uniti e Messico vengono percorsi quasi per realizzare una grande foto di insieme, un quadro senza cornice con 65 milioni di persone in fuga dalla propria terra, dove il contatto scardina l’inazione di una società irrimediabilmente scopica e senza alcun orizzonte se non quello delimitato da uno schermo.