Uno spazio immaginato più che vissuto quello percorso da John (Donald Sutherland) ed Ella (Hellen Mirren) in “The Leisure seeker“. Rispetto al romanzo di Michael Zadoorian da cui il film è tratto, il viaggio dell’anziana coppia a bordo di un vecchio van non si spinge sulla storica Route 66, ma sceglie la East Coast fino all’abitazione di Hemingway a Key West. Destinazione poetico-letteraria che consente a Paolo Virzì di sfruttare un paesaggio più ricco e quindi fornire un pretesto al personaggio interpretato da Sutherland per completare lo sguardo con frammenti di prosa.
Non è solo l’alzheimer di John a segnare una perdita di tutte le connessioni con il tempo, perché la fuga dei due anziani coniugi, nella tradizione dei road movie crepuscolari, individua uno spazio tra desiderio e immaginazione che coinvolge e compromette anche la lucidità di Ella.
Virzì ripercorre la fuga dalla normalità già affrontata nel precedente film, ma individua nell’istituzione famigliare una duplice valenza, luogo dei ricordi e prigione da cui evadere senza soluzione di continuità.
Ella e John visualizzano un’America inattuale, desunta dal cinema e dalla televisione tra i sessanta e i settanta, inclusi gli improbabili rapinatori che tentano il colpo durante un momento di sosta.
Quando Ella imbraccia il fucile e riesce a farli desistere sono il gioco e la recita a prevalere, quasi se scorgessimo per la prima volta la parrucca indossata da Hellen Mirren in uno scherzo architettato da Harold & Maude.
L’improvvisa emersione della realtà, con la festa elettorale del comitato in sostegno di Donald Trump, può essere solo affrontata con l’oblio salvifico di John, mentre crea una frizione visibile, anche in termini di luce, immagine e scelte espressive condivise da Virzì insieme a Luca Bigazzi. Quel segmento spezza per un attimo la dimensione immaginale e iconica del viaggio come se fosse un incidente di percorso o la dimensione di un risveglio indesiderato. Proprio in quel momento It’s too late di Carole King canta d’amore e disillusione, il brano è quello che accompagna il viaggio di formazione dei cinque giovani in “Fandango”, la fuga della post-adolescenza dal presente verso la frontiera messicana o i resti di un set allestito per George Stevens, un movimento opposto ma per certi versi simile a quello di Ella e John. Mentre i giovani di Kevin Reynolds e Steven Spielberg lasciano dietro di se i segni di un’America amara, ferma alle contraddizioni del 1971, i due anziani coniugi cercano nei ricordi di quegli anni l’unica possibile difesa all’incedere del futuro.
Ecco che le diapositive famigliari proiettate all’aperto in un’area camping sembrano ancora una volta indicare una condivisione volutamente fuori dal tempo, con quei ragazzi sistemati tutti intorno, rapiti da volti e ricordi che non conoscono, estranei dall’ansia del controllo social e dentro il miracolo di quella luce tangibile come un fascio di proiezione.
Più vicina alla dimensione letteraria che all’esperienza, l’America di Virzì, sfondo talvolta opaco rispetto alla formidabile presenza e centralità dei suoi interpreti, è in fondo una reverie fantasmatica che può concludersi solo con la morte, come accadeva in quel cinema a cui il regista livornese sembra riferirsi prima ancora che ad un percorso sentimentale e culturale davvero vissuto. Quel cinema che non esiste più.