venerdì, Ottobre 18, 2024

Un sogno chiamato Florida di Sean Baker: la recensione in anteprima

Suggestivo e ovvio, Un sogno chiamato Florida esce a primavera nelle sale grazie a Cinema di Valerio De Paolis. La recensione in anteprima

Adolescenza e traumi della post-adolescenza sono i temi cari a Sean Baker, autore indipendente tra cinema e televisione, amato dai selezionatori del Sundance Film Festival e incline al gioco con la superficie della sperimentazione piuttosto che al cinema di ricerca tout court.

Ha realizzato il suo quarto film intitolato Tangerine servendosi di tre dispositivi iPhone 5s, restituendo un’immagine tutto sommato flagrante del mondo intorno alla prostituzione transgender. Un sogno chiamato Florida (The Florida Project) nelle sale italiane dalla prossima primavera con distribuzione Cinema di Valerio De Paolis, ha smosso alcuni numeri importanti oltreoceano, ottenendo nominations e premi (Critics’ Choice Awards, BAFTA) oltre ai riconoscimenti per la giovanissima Brooklynn Prince, protagonista a soli sette anni del film di Baker.

Ad eccezione di Willem Dafoe e pochi altri nomi, gli attori coinvolti non sono professionisti. La sceneggiatura scritta da Baker in collaborazione con Chris Bergoch si svolge all’inizio dell’estate nell’area perimetrale occupata da tutti quei motel economici che si affacciano sul territorio disneyano di Orlando, in Florida. Concepiti come parte di un progetto urbanistico più ampio, con l’intenzione di frenare l’esubero di turisti, sono diventati nel tempo la residenza di una società ai margini. Uno di questi complessi, il Magic Castle Motel, è un edificio color porpora dove vive Halley (Bria Vinaite) giovane madre ventiduenne, ex spogliarellista con i capelli verde sparato e una figlia di sei anni a carico (l’esuberante Brooklynn Prince). 

Monee e l’altrettanto giovane Jancey (Valeria Cotto) insieme ad altri due ragazzini che le affiancano, sbarcano il lunario vivendo di quegli espedienti a metà tra il gioco, l’invenzione e la disperazione. Un vero e proprio “ingannare” la vita come unica possibilità a disposizione. Dai trucchi per spillar quattrini ai turisti, alla casa abbandonata a cui appiccano il fuoco accidentalmente, passano la giornata nella strip che le separa da quel mondo di giochi concepito dal capitale destinato all’intrattenimento.

Bobby (Willem Dafoe), proprietario sgangherato di tutto il complesso e truffatore incallito, a dispetto della sua rudezza di modi, instaura un rapporto paterno con le due ragazzine e sopratutto con Monee. Tra una minaccia di sfratto e l’altra, mitiga la sua posizione con uno sguardo sempre più empatico nei confronti della bimba.

Ed è proprio l’occhio di Monee e degli altri bambini ad impostare la struttura narrativa e sopratutto percettiva del film. Girato dal loro punto di vista e in 35mm, il film di Baker si serve della direzione della fotografia curata da Alexis Zabé, la cui esperienza si è bilanciata tra cinema indipendente e videoclip. Dal mondo iper colorato dei Die Antwoord, ma anche dall’estetismo di Post Tenebras Lux, il direttore della fotografia punta sui colori saturi legati ai totem del consumo: fast-food, stores, motel, un’america cromatica che più volte è stata oggetto di uno scambio simbolico tra esperienza, pittura, fotografia e cinema.

Tecnicamente Baker e Zabé, riescono a delineare l’atmosfera purgatoriale che si vive in questi complessi famigliari, proprio nello scarto tra miseria e colori, indigenza e una dimensione architettonica pensata per progetti turistici di grandi dimensioni. La luce e i colori colgono abilmente questo stato di passaggio tra grandeur urbanistica e decadenza, all’ombra della più grande industria dedicata al divertimento. Il sole è filtrato da quella patina di irrealtà che Storaro ha recentemente sperimentato per Woody Allen e che ricorda per certi versi quel contrasto tra realtà sovraesposta e sogno che il grande Andrzej Bartkowiak cercava di creare per le strade marginali di Los Angeles, in uno dei film dimenticati tra quelli diretti da Sidney Lumet, The Morning After.

Se si esclude il tentativo di frammentare eventi e azioni attraverso una serie di istantanee che cercano di catturare lo spirito quotidiano della vita dei protagonisti, collocati letteralmente con-tro il paesaggio, la potenza della vignetta non riesce a costruire una visione positivamente amorale come accade per esempio nel cinema del grande Terry Zwigoff, dove i personaggi sono certamente chiusi nel loro contesto di riferimento, anche semplicemente visivo, ma allo stesso tempo liberi di aprire il quadro che li racchiude.

Baker è un ruffiano e preferisce connettere i suoi bozzetti senza farli reagire. Lo sguardo non è più quello amorale dell’infanzia, ma si trasforma a poco a poco in quello paternalistico e indirettamente cinico del buonismo per le masse.

Non è un caso che il personaggio interpretato da Defoe, risulti letteralmente intrappolato nel meccanismo che regola le strutture che gestisce. Da una parte è una figura davvero straordinaria, scritta ampliando la dimensione emotiva della galleria che Defoe stesso ha collezionato nella sua carriera;  emerge tra i numerosi frammenti narrarativi con un carico di umanità che dobbiamo scoprire, quasi fosse, il suo, un film parallelo non compiutamente sviluppato rispetto alle priorità di Baker. Tra business ed empatia, lo sguardo di Bobby è quello negato allo spettatore, perché il regista di The Florida Project lo intrappola preferendogli un contrasto tematico e visivo più evidente e compiaciuto, sdipanato nel paesaggio che si staglia in queste Tranches de vie, vero protagonista del film.

La colonna sonora in odor di ambient composta da Lorne Balfe cerca di seguire il copione di una certa musica concrète, servendosi di un metodo tra la documentazione e la costruzione di un procedimento acusmatico: jingles pubblicitari, musica per ascensori e gallerie commerciali, defunzionalizzata e adatta a commentare l’entropia di un capitale che mentre progetta nuovi spazi, genera anche nuova povertà.
Giustapposizioni tanto suggestive, quanto ovvie.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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