Riproponiamo in occasione dell’uscita Criterion un’intervista rilasciata da Dusan Makavejev il 29 Aprile del 2000 a Venezia durante l’incontro con la stampa presso la Sala Volpi in occasione de “La Meticcia di Fuoco”, una rassegna curata da Sergio Gmek Germani e dedicata ad un’idea estensiva e fantascientificamente esaustiva del cinema dei Balcani. Dusan parla di quest’idea e si sofferma su Nevinost bez zastite; buona lettura
Nel cinema ci sono molti livelli di contenuto che si possono rintracciare. Tutti i film di fiction, dopo venti o trent’anni diventano documenti importanti di quel periodo, anche e soprattutto i brutti film, che riescono a diventare documenti eccellenti. Un aspetto emerso è come questo lavoro mi abbia costretto a ricercare tutto il girato possibile nei Balcani, almeno sul piano della possibilità. Per cinquant’anni non c’è stata comunicazione interna anche nel flusso delle immagini; un turco, per esempio, non vedrà mai un film realizzato da Bulgari, come se il sistema di chiusure si fosse prolungato anche nel modo di guardare. Ci sono venti film realizzati in paesi diversi che trattano in vari modi l’assassinio compiuto a Sarajevo, chiaramente con angolazioni e prospettive differenti. Per esempio, secondo lo sguardo serbo si tratterà di rappresentare un atto terroristico ai fini della liberazione del paese. Per l’occhio austriaco, un evento tragico non privo di gravi conseguenze. Nell’idea di frammentazione e analogia delle immagini, penso ai numerosi film realizzati su Rasputin dalle cinematografie di diversi paesi. Mi ha sempre colpito l’evento della sua morte, nei termini della rappresentazione. Un problema di asce/coltelli/argomenti. Sarebbe interessante montare insieme i tagli, le immagini e le varie morti di Rasputin attraverso l’analisi dei film a lui dedicati. Mi viene in mente, sempre a proposito di accostamenti, di un fenomeno scoperto dai linguisti russi nell’analisi della struttura morfologica di culture differenti che si trovano a vivere nella stessa area. Quello che è stato verificato è la presenza di elementi comuni nella configurazione del linguaggio. Lingue quindi differenti, presenti nei Balcani, che risultano avere delle unità linguistiche comuni in modo da far pensare ad un possibile “sistema morfologico balcanico”. La stessa cosa, per quanto mi riguarda, è possibile rintracciarla nei film provenienti da queste cinematografie: dove microelementi comportamentali potrebbero far emergere una certa unitarietà di fondo. In un sistema produttivo monitorizzato continuamente dalle iniziative del governo, soprattutto a scopi di diffusione, la Jugoslavia ebbe la fortuna di inserirsi nella zona grigia tra est e ovest in un sistema di possibilità e aperture dalle forme spesso contrastanti, ma sicuramente potenziali. Subito dopo la guerra, per esempio, si vedevano tutte le produzioni europee e buona parte dei film russi. La cineteca di Belgrado era ricchissima di produzioni russe. In realtà il primo livello di pressione politica era esercitato dai gruppi locali. In Croazia c’era una forte censura politica e il governo centrale aveva un’importanza decisamente secondaria. I registi del dopoguerra erano tutti giovani ed ex partigiani. I momenti di tensione servivano loro ad escogitare delle strategie di reazione rispetto agli attacchi periodici, per esempio se venivano accusati di fare dei film troppo occidentali o meno. Le discussioni in questo senso erano ridotte ad una forma di negoziato, ed inoltre il sistema federale permetteva loro di spostarsi da un luogo ad un altro; se si avevano problemi in patria, si poteva girare, per esempio, in Slovenia, punto di fuga importante almeno rispetto alla Serbia. La Croazia stava esattamente nel mezzo.
A proposito del film Nevinost bez zastite (Verginità indifesa, 1968) Dragoljub Aleksic era una persona dalle capacità straordinarie, proprio per questo pensai di ricostruire esattamente l’intero film originale realizzato nel 1943, modificandolo con delle interferenze, cercando l’operatore, gli attori, le newsreel d’epoca. Avevo già fatto il mio primo film di successo, e anche il secondo, nel dubbio che potesse risolversi in un fiasco, risultò al contrario un successo. Pensai che il fallimento sarebbe dovuto arrivare inevitabilmente con la terza prova, per questo motivo decisi di non fare un terzo film, ma di riferirmi invece al film di qualcun altro. Ed ecco la storia di Aleksic; riesco a trovare il materiale su di lui, mi metto in contatto con Aleksic stesso, vengo a sapere che in seguito ad un litigio con il produttore era rimasto solo con cinque rulli in suo possesso, riesco ad avere il resto con una serie di transazioni, e mi metto al lavoro. Il film era cosi bello che decisi di farne una citazione continua e totale. Il risultato fu che vinse l’orso d’argento a Berlino. La domanda più frequente che veniva posta ad Aleksic, sul risultato del film, era se si sentiva messo in ridicolo dalla mia elaborazione, Aleksic rispondeva sempre allo stesso modo: “Se la gente ride, vuol dire che il film fa cassetta, e a me piace guadagnare”. Aleksic è morto a 70 anni, con un piccolo funerale, non perché fosse realmente un collaborazionista o un criminale, ma perché sul suo passato c’erano effettivamente delle ombre. L’episodio della scazzottata con Petrovic all’interno del film causò a Petrovic non solo la perdita di due denti, ma il decesso esattamente dopo quindici giorni, considerati i suoi problemi di emofilia. Aleksic non ne parlava mai, non raccontava mai tutta la verità, cercava comunque di romanzare l’evento con trovate sceniche di vario tipo; ad esempio prima della proiezione si faceva vedere con le stampelle, dicendo: “Vedete come sono stato ridotto da un tizio che ho picchiato”. Era uno showman totalmente istintivo. Il film da lui girato fu la prima realizzazione sonora che i serbi sentirono nella loro lingua, aveva avuto un’idea primitiva e allo stesso tempo geniale di microfonare l’audio anche fuori della sala, per far sentire la colonna sonora all’esterno e spingere gli spettatori ad entrare. Rispetto alla sperimentazione era totalmente immediato e aperto, quando decisi di modificare alcune sequenze con l’apporto dei sistemi di colorazione di alcune porzioni del fotogramma, l’idea gli piacque molto e mi disse: “È un peccato non averti conosciuto ventisei anni fa”.
(Dusan Makavejev / Michele Faggi – Venezia 2000)