Presentato fuori concorso a Venezia, in attesa di vederlo nelle sale italiane distribuito da Universal a partire dal 26 ottobre, Victoria e Abdul porta sul grande schermo una storia venuta alla luce solo nel 2010: la nascita e lo sviluppo di una relazione insolita e profonda, quella tra la sovrana inglese e un umile indiano di credo musulmano, Abdul Karim, entrato nelle simpatie della regina a tal punto da ritrovarsi promosso a suo maestro di vita e membro a tutti gli effetti della casa reale, nonostante l’ostilità, gli intrighi, gli agguati degli altri cortigiani.
StephenFrears realizza un film estremamente leggibile nelle intenzioni edificanti: unar riflessione post-coloniale sull’ingordigia predatoria dell’impero britannico che trova una perfetta incarnazione nella bulimia della sua monarca più iconica che, molto spesso nel film, viene colta a ingozzarsi in modo tutt’altro che regale.
L’apertura inattesa della regina nei confronti dell’altro da sé, il servitore indiano Adbul, rappresenta un tentativo di conciliazione tra due universi in equilibrio sbilanciato e al contempo un atto di insubordinazione del potere – quello, indiscusso, ostinato e autoritario, esercitato da Victoria – nei confronti di se stesso e del suo programma imperialista.
L’impostazione smaccatamente anti-orientalistica del film scivola, però, velocemente dal manifesto (una battuta sull’abito molto ‘indianizzante’,
ma poco indiano indossato da Abdul il giorno del primo incontro con la sovrana) alla sua negazione nella prassi: nella caratterizzazione del giovane indiano gioviale e un po’ giulivo che insegna a Victoria a riscoprire la poesia della vita, non vi è, infatti, nulla che non sia orientalistico.
Film tradizionale che segue la flessione disimpegnata degli ultimi lavori dell’autore – a parte Philomena che, comunque, a suo modo alleggeriva e rischiarava la cupa complessità del bigottismo irlandese di stampo cattolico e le sue atroci conseguenze sociali – Victoria e Abdul concede alla questione della differenza di classe e delle gerarchie del potere l’attenzione più prepotente, a discapito di un filone potenzialmente più interessante ed eppure appena accennato, quello che, riaprendo la meditazione inaugurata da The Queen, vuole indagare il peso della
corona e il senso di un’istituzione che sembra trascinarsi a fatica e, invece, non perde mai del tutto il suo vigore.
Nella conferenza stampa a Venezia, il regista, interrogato sui numerosi siparietti comici del film, ha insistito sulla sua intenzione di realizzare un’opera «irriverente», ma l’umorismo di Victoria e Abdul sembra,
in realtà, piuttosto ‘riverente’ e addomesticato, talvolta persino cheap, di certo privo di quel tono mordace che pretenderebbe di avere.
È un peccato perché Judi Dench, che torna al personaggio della regina Vittoria dopo averla già interpretata in Mrs. Brown del 1997, è talmente straordinaria che quasi ci si sente ingenui a scriverlo: tempo fa aveva bacchettato le nuove generazioni di attori perché digiuni di Shakespeare e poco disposti a studiare e nessuno più di lei, in effetti, oggi rappresenta un’accezione alta, saggia e coltissima del mestiere d’interprete.
Lei e la co-star Ali Fazal (classe ’86, al primo film di rilievo internazionale) sono concordi nel definire la relazione improbabile tra la regina e il giovane commoner indiano al di là dell’amore
e dell’amicizia, un affetto che resta sospeso e che, come ha osservato l’attore in conferenza stampa, ‘spiritualizza’ l’esistenza della regina. Ma è proprio questo assioma tra spiritualità ed esotismo – che il film sembra presupporre e avallare – a condannare Victoria e Abdul alla superficialità e al conformismo.