Pančevo, nord-est di Belgrado, è una città afflitta dall’inquinamento, situazione che è andata peggiorando dopo i bombardamenti del ’99, aggiungendo un’inquietante ipoteca sul futuro di un luogo che paradossalmente si trova a “respirare” meglio per il crollo della produzione industriale causato dalla crisi.
Zivan si aggira per la città attaccando con colla e nastro adesivo piccoli manifesti autoprodotti, sta promuovendo un evento, come ogni anno, cercando di ottimizzare i pochi mezzi a disposizione. A tre giorni dal festival punk che organizza a Tomasevac, il suo villaggio natale, vaga per Pančevo cercando di racimolare i soldi necessari per stampare qualche manifesto in una copisteria locale.
Mentre parla con un conoscente che gli chiede informazioni, apprendiamo del suo duro passato, fatto di solitudine e trascorso in un istituto di igiene mentale.
Giunto a Tomasevac dovrà organizzare tutto ad un giorno dall’evento; con sole 200 euro a disposizione deve pensare alle band invitate e rivolgersi ad un service che allestisca un impianto il più possibile funzionante, mentre gli è stato comunicato da poco che l’attrazione principale non potrà venire, Zivan punta ad un numero limitato di band Slovene, aspetto che per lui è sufficiente a definire il festival come un evento “internazionale”.
Con una filosofia ferocemente DIY fissa l’ingresso a 100 dinari e presume di portare almeno 200 persone nell’area adibita ai concerti, ma mentre si assicura che tutto funzioni a dovere e gli mancano i soldi per comprare persino un paio di birre ai musicisti, un amico del luogo lo guarda con sospetto chiamandolo in modo ironico “entusiasta”.
Riesce persino ad organizzare un’intervista con una televisione locale scassatissima, dichiarando ai microfoni che le sue intenzioni, dopo sei anni di festival, sono quelle di espanderlo almeno a due giorni.
Arriveranno pochissime persone, e Zivan riuscirà a vendere solo dodici biglietti, sorbendosi alla fine la reprimenda del solito amico che definisce il suo comportamento come quello di un folle, uno scriteriato che non pensa alla madre e che non ha un progetto di vita.
Sembra una dimensione surreale quella filmata da Ognjen Glavonic, eppure, nonostante la naiveté di Zivan, il mockumentary dell’autore serbo cattura perfettamente l’isolamento della provincia rurale, come un disperato tentativo di ricostruzione sul niente; Zivan mette in piedi un evento senza un reale scopo se non quello di immaginarsi qualcosa di positivo per la collettività, non importa se questa ha abbandonato i villaggi e se deve pagare qualcuno per creare movimento, il suo è un progetto che lo mantiene in vita al di là della totale sconnessione con la realtà pratica.
Girato con un digitale sporco e non troppo lontano dalla definizione standard delle vecchie VHS, il film di Glavonic arriva dopo due cortometraggi che già raccontavano la Serbia contemporanea, a dieci anni dalla rivoluzione democratica; Živan Pravi Pank Festival sceglie solo apparentemente una declinazione grottesca, se infatti l’autismo di Zivan gira completamente a vuoto in uno spazio iperreale, è proprio su questo scarto tra realtà e sospensione che il regista serbo costruisce un’elegia dolente e anti-epica sulla solitudine e l’isolamento geopolitico delle enclavi serbe.