“Amore Amaro” è uno dei film più esplicitamente crepuscolari e sospesi nel tempo tra quelli diretti da Florestano Vancini. La collaborazione di Dario di Palma alla direzione della fotografia, la terza e ultima con il regista ferrarese, contribuisce anche da un punto di vista cromatico ad unificare senza soluzione di continuità quella relazione tra passato e presente che attraversa tutto il cinema di Vancini e che con il successivo “Un dramma borghese” salderà definitivamente la coscienza secondaria del ricordo entro un mondo chiuso, inattuale e allo stesso tempo fuori dal tempo, popolato solo da fantasmi.
Dopo “La Violenza: Quinto potere”, “Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato ” e “Il delitto Matteotti”, i tre “film-documento” al centro di una lunga stagione di impegno civile, Vancini torna ad un racconto di sentimenti e passione amorosa sullo sfondo di un contesto Storico e ideologico che non “ha le esigue dimensioni proprie di uno scenario subordinato alla vicenda” (Florestano Vancini, conferenza stampa di “Amore Amaro”, Giugno 74).
Quattordici anni anni dopo “La lunga notte del 43”, la Ferrara di “Amore Amaro” è quella completamente travolta dal fascismo e appena precedente all’esplosione del secondo conflitto mondiale. La radice letteraria serve a Vancini per completare la sua personale ricerca sul “vero”, attraverso un percorso che non è semplicemente di natura “Bassaniana”, riduzione critica superficiale che ha origine da quello che è il suo film più conosciuto e celebrato, ma che sfrutta riferimenti e suggestioni per costruire una personale rilettura della fenomenologia Husserliana su tempo, ricordo e ritenzione, attraverso il filtro e le elaborazioni tra esistenzialismo e idealismo di Luigi Pareyson e la loro influenza su tutta la cultura italiana a partire dagli anni sessanta.
Le scelte che conducono Vancini ad adattare Giorgio Bassani (“La lunga notte del 43”), Pier Antonio Quarantotti Gambini (“La Calda Vita”), Carlo Bernari (“Amore Amaro”) e Guido Morselli (“Un dramma borghese”) hanno una radice comune in quei paradigmi proustiani che accompagnano lo sviluppo novecentesco del romanzo italiano dentro e fuori l’esperienza solariana. Elementi del Bildungsroman dove l’iniziazione, la passione illecita, la disubbidienza e l’educazione sentimentale convergono in parte con la ricerca psicologica di tradizione europea, ma anche con quella ontologia emeneutica che si forma nello scambio complesso tra esperienza individuale, intesa come interpretazione della realtà e il modo in cui questa diventa incarnazione stessa del vissuto.
Se il tempo spazializzato di Bassani viene assimilato e riletto da Vancini in quei movimenti di macchina che colgono la città in uno stato di transizione tra l’attualità storica e il perdersi dell’io in una realtà che non riconosce né può più trascendere (le strade, le piazze, le fughe clandestine, l’incredibile conflitto a fuoco ne “La Banda Casaroli”, la Sardegna ancora selvaggia de “La Calda Vita”), il punto terminale di questa ricerca è nel cinema “irrazionale”, fatto di salti e fermi immagine ex abrupto di “Un romanzo Borghese”, dove i “relitti fonico-visivi” e la “memoria involontaria” di “Dissipatio H.G.” emergono in un’opera imperfetta e allucinata che è qualcosa in più di un omaggio allo stesso Guido Morselli, perché penetrandone profondamente il senso, rimane fedele alle origini di quel cinema della memoria che Vancini aveva cominciato a praticare dal 1966 con “Le stagioni del nostro amore”.
Vancini rendeva più “domestico” il Godard di “Une Femme Mariée” ne “Le Stagioni del nostro amore”, limitandosi ad immegere quei corpi nei chiaroscuri di Dario di Palma per farli risuonare con una Mantova spettrale, mentre le interferenze del cinema di genere attraversano tutto il suo cinema, con una predilezione per il polar francese, fino ai drammi “in pieno sole” di Clement e Deray di cui si appropria per rovesciarne gli elementi costitutivi nel bellissimo e tormentato “Violenza al sole”, film dalla lavorazione accidentata e inizialmente bloccato in fase di montaggio per alcune controversie con la Ultrafilm di Turi Vasile.
“Amore Amaro” è in un certo senso la prosecuzione di un discorso sui sentimenti e sul desiderio, centrale nel cinema di Vancini e che si era interrotto nel 1969 proprio con “Violenza al sole”: “Attraverso personaggi di fantasia si può arrivare a una verità, la stessa verità contenuta nel messaggio didascalico de “Il delitto Matteotti. La storia di Renata e Antonio è chiaramente strumentale, ma non per questo motivo va considerata in secondo piano rispetto all’analisi del periodo storico che essa riflette. Già con “Le stagioni del nostro amore”, “La Calda Vita” e “Violenza al sole” ho cercato di intraprendere un discorso complesso sui sentimenti e, in un certo senso, anche “La lunga notte del 43” è una storia d’amore. Amore Amaro, oserei dire, è quasi un saggio sull’ “educazione sentimentale”. Nonostante la differenza d’età tra Renata e Antonio non vi è iniziazione, anzi entrambi manifestano sin dal primo istante immaturità ed egoismo, in una dimensione emotiva delirante. Visto Superficialmente potrebbe sembrare un “amore impetuoso”: in realtà anche questo modello “classico” risponde a valori spirituali falsi, distruttivi”.
“Amore amaro” di Florestano Vancini è tratto da un romanzo breve di Carlo Bernari con lo stesso titolo, pubblicato originariamente nel 1958 da Vallecchi e successivamente inserito nelle raccolte “Per Cause imprecisate” (Mondadori, 1965) e “Amore amaro ed altri amori” (Avegliano Editore, 2001).
Come racconta Enrico Bernard, drammaturgo, regista e saggista italiano, figlio dello scrittore napoletano, l’ipotesi iniziale di una collaborazione tra Bernari e Vancini per la sceneggiatura del film, viene abbandonata per lasciare il posto a Suso Cecchi D’amico con cui il regista ferrarese condivide l’esperienza degli anni 30 nell’Italia fascista e che aveva conosciuto qualche anno dopo il lavoro sul set di “Un’estate violenta” di Valerio Zurlini, film sceneggiato dalla Cecchi D’amico e per il quale Vancini aveva collaborato come aiuto regista.
Del rapporto tra Vancini e Bernari, Bernard racconta un’accesa telefonata del secondo dopo l’anteprima del film nel 1974. Il disappunto dello scrittore è per le sequenze erotiche che coinvolgono Leonard Mann e Lisa Gastoni, in particolare l’amplesso furioso consumato sul muretto dei giardini pubblici parmensi, nel romanzo ambientato nella romana Villa Borghese. Alla base della reprimenda di Bernari contro Vancini, gli interventi scritti per “Il Tempo” alla fine degli anni sessanta e raccolti sotto il titolo de “I pornostanchi” dove la supposta liberazione dei costumi viene contestata in virtù di quella che lo scrittore napoletano definisce come una mercificazione industrializzata dell’erotismo e della sessualità, ormai asservita ai meccanismi del consumo capitalistico.
Vancini, nel suo rigoroso percorso di svuotamento dell’immagine dai riflessi della soggettività, utilizza un erotismo solo apparentemente prossimo al cinema italiano coevo, tanto da non rendere affatto casuale la scelta di Lisa Gastoni, per il suo ruolo centrale e allo stesso tempo obliquo rispetto al genere. Da “La seduzione” di Fernando di Leo e dalla “Maddalena” di Kawalerowicz, per limitarsi ai film più vicini ad “Amore Amaro” e che testimoniano l’evoluzione di una delle interpreti cinematografiche che meglio di altre ha saputo dar corpo a quella tensione tutta italiana tra spirito e peccato, ricava certamente la forza di una donna che diventa tutt’una con l’espressione dei propri desideri, ma intensificando gli aspetti dolenti e crepuscolari del sentimento. L’attrice ligure interpreta Renata con gli occhi e le labbra, affidando alle seconde sicurezza e ingordigia, ai primi quello spossessamento rispetto alla realtà circostante che sconfina con la fragilità e la perdita di un centro, aspetto quest’ultimo che caratterizza tutti i personaggi femminili Vanciniani, irrimediabilmente e disperatamente sospesi tra due mondi.
C’è sicuramente l’eco della retorica amorosa di matrice Dannunziana, ma completamente ridotta a simulacro negativo e gettata letteralmente contro il paesaggio, quello di una Ferrara svuotata e immersa nell’opacità dell’immagine legata alla dimensione mnestica della fotografia, altra variazione rilevante rispetto alla Roma di Bernari che mantiene una diversa vitalità, ma anche dalla spinta libertaria che ispirerà décor e tempi della commedia nel cinema di Tinto Brass. L’atmosfera di “Amore Amaro” anticipa per certi versi quella estrema di “Un Romanzo Borghese”, film che Vancini girerà dopo cinque anni di pausa e che radicalizzerà in forma più astratta quello che lo stesso Bernari definisce come “accumulo di materiali realistici, fatti, cose, ambienti, personaggi, sottratti alla realtà viva e collocati a una distanza caliginosa e polverosa che facesse memoria“.
E se nell’arte di Bernari c’è Proust e niente di Zola, come testimonia la corrispondenza tra Cesare Zavattini e lo scrittore napoletano riportata da Enrico Bernard, di “Amore Amaro” Vancini interpreta il senso della perdita, la vita che esaurisce pienezza e forza, cogliendo quelle sconnessioni tra tempo e spazio che appartengono a tutta la letteratura che ha adattato per il cinema.
Lisa Gastoni torna sulle tracce di Belinda Lee, correndo per una Ferrara aurorale e cercando di sfuggire all’inesorabilità del tempo, ma se il personaggio di Anna Barilari diventa improvvisamente un fantasma assorbito dal suo stesso farsi coscienza in un paese che l’ha completamente persa, i due personaggi di “Amore Amaro” sono già avvolti da un’atmosfera sepolcrale che trattiene in ogni gesto, in ogni immagine, il senso della fine.
Il ritorno al presente de “la lunga notte del 43″raccontava con una forma tagliente la coesistenza mimetica del fascismo nell’Italia dal dopoguerra al boom economico, in quel disturbante consociativismo delle anime che non ha mai abbandonato il nostro paese fino al recente squallore della realtà politica attuale, ma la qualità immutabile e impermeabile degli spazi occupati da Renata e Antonio nella parte conclusiva del film, ha una forza radicale, perché sovrappone il tempo del ricordo ad un orizzonte senza futuro. Invece di registrare un’alterazione, un mutamento della coscienza, in quello sguardo di Antonio verso i grattacieli di una Roma anonima, catturata dalla fotografia desaturata di Dario Di Palma, sembra esserci tutto il senso del risveglio da un sogno mai stato.