di Sam Peckinpah USA, 1973-2005
56a Berlinale – Fuori concorso
A giochi fatti, l’ultimo giorno della Berlinale è dedicato alle ripetizioni, alcune delle quali ricche di inattese differenze. È il caso di questo film del buon vecchio zio Sam, riproposto dopo ventidue anni in una versione non integrale, non director’s cut e nemmeno redux. Semplicemente, integra. Un po’ com’è stato per Il mucchio selvaggio un lustro fa. Pat e Billy recuperano undici minuti tranciati senza criterio alcuno e sbarcano a Berlino last and best. Oggi il film ha riempito tre schermi. Poi tornerà in una dimensione casalinga. Il DVD, infatti, è disponibile da tempo.
Agli inizi degli anni ’70, Peckinpah era un noto macellaio. Film come The wild bunch (1969) o Cane di paglia (1971) ebbero non pochi problemi di censura, e sollevarono questioni morali tanto discusse quanto di lana caprina. Alla fine, i veri macellai furono i responsabili delle theatrical versions dei suoi film, spesso ridotti a reduci di guerra senz’arti né, purtoppo, parti. A quanto pare la pena non scritta dello zio Sam ammonta a trent’anni; ora, lentamente, si sta rimediando alle vecchie malefatte. Pat Garrett & Billy the Kid è la storia di una caccia. Il vecchio Pat (James Coburn) soffia sul collo del giovane Bill (Kris Kristofferson). Sono fatti della stessa pasta, ma Pat ha deciso che i tempi, ah, stanno cambiando, e che è scoccata l’ora di indossare una stella invece di estrarre una pistola alla sua vista. Ricorrere all’ormai vieto cliché del western crepuscolare per descrivere il cinema di Peckinpah è riduttivo e fuorviante. Come Carpenter, lo zio Sam ha sempre cavalcato i generi per dire altro, per parlare del suo qui e del suo ora. E nonostante l’amarezza, la vecchiaia e la morte siano cifre indubbie delle sue pellicole, Peckinpah non indugia mai nello spleen del giorno che si spegne o delle epoche che finiscono. Il suo non è un funerale, una celebrazione malinconica. Il suo sguardo ingaggia una battaglia continua: aggredisce sia la materia filmica, sia i destinatari di questa materia. Ci scrolla. Ci dice che la violenza ci riguarda, e i barbari siamo noi. Passino le accuse di maschilismo e di scortesia, le violenze su animali e la sete di sangue – il sangue che esplode all’arrivo di una pallottola: spraf! -, ma ciò che resta, e ciò che conta, è che un film di Peckinpah non illude e non prende in giro. A essere scandalosa è la sua onestà.
Pat Garrett & Billy the kid ci consegna tutto questo, con un elemento aggiuntivo. Tanto diretto e brusco è lo zio Sam nel filmare i suoi due protagonisti e i loro bisogni elementari – il sesso, ad esempio: ecco gli undici minuti mancanti – quanto è adorante nell’inquadrare la terza punta del film. Bob Dylan. Il quale recita sommesso e furbetto, una via di mezzo tra Jack Nance e Charlie Chaplin. Il quale ci consegna una colonna sonora perfetta e discreta, che non si mangia il film. Lo arricchisce e aggiunse senso, questo sì. Dylan è inizialmente un mero spettatore, poi si affianca a Billy come laconico lanciatore di coltelli animato da un umorismo stralunato. Chiamatemi Alias, dice. Il poeta americano vena tutta la pellicola della sua presenza, che pare quasi imbarazzare l’imperturbabile zio Sam. Quando Garett lo vede per la prima volta, seduto a un tavolo, gli chiede: “Who are you?” Lunga pausa. “That’s a good question”.