United Red Army
“Alcune persone mi chiedono che senso abbia fare un film oggi sull’Armata Rossa Unita. Mi piacerebbe rispondere con una domanda e chiedere loro se la situazione è cambiata. Qualcuno dei problemi di allora è forse stato risolto? È evidente che nulla è cambiato. Ci sono ancora guerre in tutto il mondo, il trattato di sicurezza con gli Stati Uniti esiste ancora e le autorità controllano i cittadini ancora più severamente. Non ho mai detto che quello che fecero i militanti della ARU fosse giusto, ma che cosa può dirsi “giusto”? Tutto ciò che conta è l’espressione delle nostre intenzioni” ( Wakamatsu Koji, dall’intervista curata da Alice Massa, pubblicata tra gli extra del DVD Rarovideo)
Wakamatsu Koji è regista dallo sguardo inconfondibilmente politico nel senso più pieno del termine, almeno quanto l’altro grande del cinema giapponese, Oshima Nagisa, suo amico per piena corrispondenza di idealità e a lui accomunato anche dalla morte, avvenuta a distanza di pochi mesi. United Red Army del 2007 segna il punto di arrivo di una riflessione iniziata cinquant’anni prima proprio da Oshima con Racconto crudele della giovinezza e Notte e nebbia in Giappone. Inevitabile, allora, guardare alle spalle del film di Wakamatsu per capirne la genesi e cercare una risposta non liquidatoria alla violenza che, con varie declinazioni (di regime, individuale, arma politica o esplosione di pulsioni inconsce e incontrollate) è messa in scena fin dalle prime sequenze.
La crudeltà raccontata nel ’60 da Oshima, esordiente ventottenne in forza alla Shöchiku, casa di produzione in cattive acque, divenne allora la bandiera del Nuovo Cinema Giapponese, chiuse la partita con gli edulcorati e cloroformizzanti seishun eiga in gran voga e compose senza mezzi termini un ritratto realistico della gioventù giapponese dei primi anni Sessanta.
Quei giovani si chiamavano Kiyoshi e Makoto, erano belli, privi di linguaggio, quasi catatonici, vivevano con incoscienza volubile, come bambini cresciuti troppo in fretta in un mondo di padri e maestri da cui fuggivano, senza trovare alternative che non fossero un facile edonismo, disimpegno o violenza. Oshima non li presentò “né come tristi vittime della società né come coraggiosi ribelli” (Tadao Sato, Il film giapponese dagli anni sessanta agli anni ottanta, in Cinemania, 1983), sembravano piuttosto i fratelli minori di quegli infervorati militanti del movimento studentesco (Zengakuren) che in Notte e nebbia in Giappone, stesso anno di Racconto crudele, dibattevano accesi sui gravi errori del Partito Comunista giapponese nel dopoguerra, sulla ratifica del secondo trattato di sicurezza nippo-americano, sul filosovietismo dogmatico dei quadri dirigenti, sulla delegittimazione del movimento studentesco da parte di quei rigidi burocrati che prepararono conseguenze nefaste per l’ordine del Paese nei decenni successivi.
Ma sul Giappone gravavano notte e nebbia, Oshima fotografò con lucidità profetica il fanatismo e lo spontaneismo, l’improvvisazionne e lo schematismo di tanta parte dei movimenti giovanili emersi dalle lotte dell’immediato dopoguerra, e soprattutto la mancanza di un progetto politico duraturo e veramente rivoluzionario, capace di interpretare le istanze autentiche del popolo rispettando, allo stesso tempo, le ragioni dell’individuo.
Il dibattito inconcludente registrato dal film divenne un circolo chiuso di responsabilità rinfacciate, domande, ricordi, sospetti e rivelazioni, nulla che aprisse a prospettive future di reali cambiamenti.