Il senso del reale e la sua rappresentazione sono fulcro dell’ultimo film di Paolo e Vittorio Taviani. In Cesare Deve Morire tutto è finzione, sebbene tutto sia autentico, in una continua sovrapposizione dei piani della concretezza e dell’incredulità.
Veri sono i luoghi di detenzione, i muri, i chiavistelli, le divise, le sbarre. Veri sono i volti scolpiti da storie che recano le stimmate della tragedia (inflitta, subita); veri sono i dialetti, le gestualità, le stesse possenti presenze. Vero è il progetto teatrale che Fabio Cavalli (anch’esso in scena), da anni, porta avanti nel carcere di Rebibbia ed autentico e struggente è il riscatto, anche solo privato, intimo, di ognuno dei protagonisti del film.
Eppure, nell’eterno “rituale di verità” della detenzione; nell’infinito apparato scenico istituzionale fatto di corridoi, di celle, di pareti scrostate, il cinema s’insinua sovvertendo gli schemi costituiti, producendosi in un trompe l’oeil naturalista; iperreale al punto da essere fittizio.
Così dietro la parvenza di un documentario, si nasconde la macchina autoriale che abbatte le pareti della sezione di massima sicurezza del penitenziario romano; le trasforma in quinte teatrali; dona loro la dignità del gesto pasoliniano, innalzandole ad un valore simbolico che trascende il peso della cinta carceraria. Mura paurose e inviolabili che, mitopoiesi del cinema, si smaterializzano, divengono ariose, come se una vera reclusione non esistesse più. Tutto si confonde nell’altro e la vita (colore), anche se sul palcoscenico, si fa arte (bianco e nero), anche se dentro una cella.
La finzione dello spettacolo, coinvolge gli stessi interpreti, alcuni dei quali hanno già scontato la loro pena in passato, ritrovandosi in luoghi, quindi, ben conosciuti ed odiati. Tra questi lo strepitoso Salvatore Striano, lo scissionista del Gomorra di Garrone, un Bruto rabbioso e tormentato, che carica sul personaggio shakespeariano tutto il peso di un vissuto inenarrabile. Non da meno sono gli altri protagonisti che nel Giulio Cesare del grande di Stratford upon Avon, opera che fino all’arrivo dei due registi non era mai stata allestita dal laboratorio di Cavalli, trovano la formula esatta della compenetrazione tra la storia maggiore e la propria; tra “Storia” e storie. Non paia dissacrante il paragone con i birilloni del mitologico Storie Dello Spazio Profondo di Bonvi e Guccini: alieni famelici che riuscivano ad essere placati soltanto leggendo loro Shakespeare. Come dire che (abbracciando un pensiero che va tanto da Malatesta a Gramsci, quanto da Ada Negri a Don Milani) solo nella cultura, nel sapere, nello studio, risiede la chiave per un’autentica liberazione (le interviste ai protagonisti, contenute negli extra del DVD, sono rivelatrici in questo senso).
La macchina da presa li segue negli anditi del luogo di pena; con le parole gravi del bardo che si sostituiscono alle loro, pesanti come piombo ma impossibilitate ad esprimere alcun ideale; registrandone lentamente la mutazione, il coinvolgimento, che sfocia poi sul palco, davanti ad un pubblico, giustamente, rapito. Rapito, sì dalla forza d’interpretazioni inattese, ma anche dalla carica umana espressa da persone la cui umanità è stata minata violentemente dalle contingenze dell’esistenza.
Perché Cesare Deve Morire è, ovvio, anche e soprattutto riflessione sul senso dell’arte come veicolo di riscatto sociale ma tutto partecipa a farne anche spunto per riflessioni altre, che forse, com’è giusto che sia, travalicano l’opera stessa. Perché davanti alle iscrizioni recanti pena e reato dei nostri, non si può non provare un moto di profonda commozione ed empatia. E perché se Foucault, in Sorvegliare e Punire, afferma che: “la delinquenza, solidificata da un sistema penale centrato sulla prigione, rappresenta uno stornamento di illegalismo per i circuiti di profitto”, allora diviene lecito riflettere sulla distanza che intercorre, proprio, tra i “circuiti di profitto” ed il mondo del sottoproletariato urbano che forgia personalità, private dalla nascita di ogni possibile altrove. Spazi in cui l’assenza d’ogni ordinamento, trova nel crimine una delle poche, possibili, alternative; con la miseria (e quindi la fame e quindi l’ignoranza) e il degrado come sostrato sottoculturale. Non è un caso che la maggior parte di loro provengano dalle aree più disagiate dello stivale (centro-sud); non è un caso che molti di loro hanno sul capo reati legati alla criminalità organizzata, di cui sono stati manovalanza o, meglio, carne da macello.
I corpi esposti in Cesare Deve Morire sono i luoghi di un conflitto sociale che tarda a trovare tregua, che anzi va intensificandosi. Sono corpi imponenti e minacciosi che svelano sentimenti di profondità abissali; tipologie lombrosiane che rivelano incredibili ingenuità e strazianti freschezze fanciullesche. Proprio come nella tragedia elisabettiana, i loro corpi sono esposti tali al cadavere di Cesare e come esso, anche loro, così mostrati, riacquistano quella grandezza di cui sono stati privati fin’ora: defunto il “criminale” è ora l’attore, l’artista, che si fa veicolo di verità universali. Il Giulio Cesare, diviene metafora, così, del riappropriarsi di sé attraverso l’autocoscienza. Un’autocoscienza che, finalmente, ha gli strumenti adeguati per potersi manifestare opportunamente. “Da quando ho scoperto l’arte, questa cella è diventata una prigione” è la lapidaria, terribile, spontanea, inarrivabile ed autografa affermazione che Cosimo Rega (fine pena mai) esclama a suggello di un’opera d’intensità realmente straordinara.
Poi, il film, non è privo di difetti. L’incertezza, l’indeterminatezza, connaturate al cinema dei due Taviani, qui, interessa perlopiù la recitazione dei carcerati che, improvvisamente, sembra rendersi meno sentita. E questo proprio ogni qual volta che, dismesse le vesti del personaggio teatrale, si ritrovano ad interpretare i reali se stessi. Quasi un istintuale, persino funzionale, pudore che sullo schermo lascia esterrefatti: soltanto la finzione, ancora una volta, forse, può esprimere la loro umanità fino in fondo. E’ il cinema che mostra se stesso; che attraverso l’artefazione invita a ragionare sulle parole di Georges Simenon, per mezzo di Maigret: “non esistono vittime e carnefici ma solo vittime”.
Chissà cosa succederà al loro, di cinema, da adesso in poi. certo è che con questo lavoro, oltre ad assicurarsi una pletora di premi (l’orso d’oro al festival di Berlino su tutti), anche i Taviani sembrano rinascere dalle proprie colpe artistiche, riacquistando una forza espressiva venuta meno anni ed anni orsono.
DVD ottimo, per qualità audio e video. Molti i contenuti extra con filmati riguardanti le premiazioni (ed è ancora cortocircuito tra realtà e finzione: quanto stridono le paillettes del bel mondo, con le macchie di quello visto poco prima); un dibattito con Nanni Moretti (produttore della pellicola); backstage e le, suddette, interviste ai protagonisti. Queste ultime, più che mero riempitivo, appaiono come una vera e propria appendice al film.
Grazie ad Antonella