CG Entertainment confeziona un cofanetto di tre dvd dal titolo forse altisonante per quanto abusato, ma mai come in questo caso utilizzato coerentemente al suo valore semantico; Belli e dannati comprende infatti due dei migliori film indipendenti prodotti in America negli ultimi anni, ovvero il Killer Joe del mostro sacro William Friedkin, presentato a Venezia nel 2011, e quell’Hesher è stato qui, opera prima di Spencer Susser nel campo del lungometraggio, già visto tra i protagonisti del Sundance nel 2010.
Joe Cooper, killer per professione, e Hesher, stravagante individuo dall’anima metal che sembra fare della violenza il suo unico credo, sono gli Anthony Patch del nuovo millennio, l’altra faccia di un paese ormai lontano anni luce (vicino, lo è mai stato?) dal realismo romantico di Norman Rockwell. E’ lo stesso Friedkin a riferirsi per antitesi all’illustratore nell’intervista inclusa negli gli extra del dvd insieme a quelle fatte al cast, eccelso, di attori: tra gli altri, tutti indispensabili alla riuscita di un film che, a ben vedere, può dirsi corale, un’inedito (almeno alla data d’uscita) Matthew McConaughey, e una giovane, sorprendentemente talentuosa, Juno Temple.
Lazarus Project di John Patrick Glenn (2008) si aggiunge a completare il cofanetto. Neppur lontanamente assimilabile al dramma intriso di black humor friedkiniano, e neanche capace di lasciare il segno alla stregua dell’esuberante, a volte coraggiosamente ingenuo, lavoro di Susser, vorrebbe comunque esser loro affine per tematiche e suggestioni, riuscendoci a intermittenza nei passaggi in cui la retorica lascia spazio ad atmosfere sospese indici di una certa latente autorialità, e risultando comunque un godibile film d’intrattenimento.
Ben (Paul Walker) ha alle spalle un passato segnato dalla criminalità; redento, con una famiglia e un lavoro su cui poggiare, prova a vivere l’idillio americano finchè non gli si ripresenta l’occasione di commettere reato. Condannato alla pena capitale, viene sottoposto all’iniezione letale. Si apre qui inspiegabilmente un nuovo capitolo della sua vita, che coincide con la porzione più interessante di film.
Lo ritroviamo wandering man per le strade che conducono ad una clinica psichiatrica tra le montagne dell’Oregon, in questa sede rappresentato come un non luogo e un non tempo, teatro della mente del protagonista. A tentoni, nell’ambiguità di non saper distinguere dove sia il seme della follia, se in sé o negli altri, tra angeli e demoni che gli promettono possibilità di riscatto o prefigurano per lui destino di morte, Ben si muove nel desiderio di ritornare da sua moglie e sua figlia. E’ a questo errare stesso, nel tentativo di dipanare la matassa del mistero, tra oscuri flashback di momenti vissuti, poi caduti nell’oblio, e nuovi incontri, a cui si deve l’aura affascinante del film, di cui non v’è traccia, invece, nella risoluzione, ben poco originale e fin troppo conciliante, non fosse per un dubbio che si apre in ultima istanza: è possibile che il lieto fine non sia altro che un sogno.
Pur con i suoi demoni interiori, il protagonista di Lazarus Project è tuttavia una figura monolitica le cui esitazioni riconducono sempre ad una coerenza di fondo a se stesso; Joe e Hesher sono invece estreme figurazioni del connotato, nonchè sentimento, dell’ambivalenza dell’uomo, del confine mai netto tra luce e ombra, bene e male.
Se Friedkin, la cui ispirazione si sposa con quella del drammaturgo Tracy Letts, autore della pièce teatrale da cui è tratto Killer Joe, per tutti, e per il regista più di tutti, una sorta di redivivo Harold Pinter, affonda il suo occhio in quelli dei personaggi assecondandone la deriva fin nei territori più scomodi del sesso e della violenza, Susser si colloca su un altro registro. Un Little Miss Sunshine rincalzato da una colonna sonora divisa tra Metallica e Motorhead, road movie nell’essenza più che per chilometri macinati, a cavallo di bici e a bordo di furgoncini orbitanti per le strade di una piccola cittadina, Hesher è stato qui parte dal baratro per risalire in superficie, con mezzi improbabili e certo discutibili, ma comunque verso una catarsi, per alcuni raggiunta, per altri auspicata, per il protagonista forse eterno miraggio.
Hesher (Joseph Gordon-Levitt), ragazzone senza arte né parte, piomba letteralmente nella vita del piccolo TJ, insediandosi, dopo un incontro fortuito, nella casa in cui vive con suo padre e sua nonna, l’uno straziato dalla morte della madre del bambino e barcamenato in avanti dalla sola forza d’inerzia, l’altra affettuosa stralunata ma non meno sofferente. Alla mancanza di filtri, all’ignoranza di ogni regola e convenzione nei rapporti sociali di Hesher, fa da contrappeso l’ordinaria storia di una cassiera di paese, interpretata da una sempre precisa e incisiva Natalie Portman. Nel paradosso della loro irrisolutezza saranno entrambi ancore per TJ, che imparerà a reagire al dolore, per similitudine o per contrasto rispetto a chi lo circonda, a convivere con le mancanze pesando le presenze.
Hesher inverte i punti di vista dell’abitudinarietà, regala folgorazioni che scuotono e salvano, condannato però a non poter mai salvare se stesso, costantemente sull’orlo della caduta, nomade della vita.