Fire of Coscience
Ogni anno per tre notti, in agosto, Hong Kong celebra la Festa del Drago di Fuoco, la sua tradizione più antica. Un vecchio quartiere dalle parti di Causeway Bay è attraversato da un drago lungo sessantasette metri, coperto da bastoncini di incenso infuocati, che si contorce in mirabolanti evoluzioni, seguito da fuochi d’artificio, girandole spettacolari e masse umane ipnotizzate. Figura mitica apotropaica, si crede che sconfigga le epidemie ed è sopravvissuta a tutte le rivoluzioni culturali.
Dalla scena sontuosa del mito, the fire, il fuoco purificatore, si trasferisce alle contorsioni della coscienza di due poliziotti hongkonghesi, in una di quelle virate magistrali che il cinema visionario di Dante Lam imprime con i suoi montaggi fluidi, i flashback mozzafiato, che annullano nel grigio sporco e sgranato della memoria i rossi e i gialli fiammeggianti del brulicare urbano, con le musiche, elettrizzanti come una corsa sotto tiro e leggere, a tratti, come un’eco lontana.
Fire of Conscience è un film che appartiene alla migliore tradizione del noir di Hong Kong, in particolare a quel versante che Lam sta sviluppando nei suoi ultimi lavori e che mette a fuoco con passione nella lunga intervista degli extra del Blu Ray.
La città è molto presente sulla scena, le riprese on location hanno richiesto a tutta la troupe un notevole surplus di fatica per realizzare i lunghi piani sequenza voluti dal regista, ma così il realismo narrativo ha favorito un’identificazione completa degli interpreti con i personaggi, mentre la collaborazione alla lavorazione fra tutte le maestranze presenti in campo è stata straordinaria, come raccontano regista, attori e sceneggiatore nelle interviste, in un “dietro le quinte” molto prezioso per entrare nelle dinamiche del film e coglierne tutte le sfumature. Quello che emerge è il quadro di un’impresa collettiva al servizio di qualcosa che non è solo spettacolo, cinema, ma un modo di lavorare insieme per trasmettere idee e filosofia di vita.
I protagonisti, Leon Lai /il capitano Manfred e Richie Ren/ l’ispettore Kee, attori di grande mestiere, volti famosi dello star system di Hong Kong, realizzano le loro performances in simbiosi con il regista per un film senza eroi, dove i confini fra male e bene perdono continuamente i contorni, e protagonista e antagonista sono in opposizione solo apparente.
Coinvolti in una partita senza esclusione di colpi, sembrano antitetici anche nell’aspetto.
Manfred è un poliziotto stile Serpico. Barba incolta, camicie a quadri di flanella, depresso e trasandato quanto basta per far capire come poco gl’importi far carriera e arrivare ai piani alti del potere, è in forza alla polizia da molti anni. Da quando ha perso la moglie incinta (Vanessa Yeung) in uno scontro a fuoco, vive solo per trovare il responsabile e vendicarsi. Ha un’etica molto personale e contraddittoria, capace di coniugare la dedizione totale al lavoro, con conseguente dimenticanza di sè, con prassi molto personali e violente di risoluzione dei casi. Un demone sembra impadronirsi a tratti della sua mente, è la peste che affiora in ognuno di noi e convive in lotta costante col bene.
L’ispettore della narcotici Kee è invece un’elegante e brillante figura in completo scuro e occhiali, dimostrazione vivente di dove conduca la scalata al potere e da quali altezze si possa precipitare. Arrivato sulla scena per collaborare con Manfred ad indagini sull’omicidio di una prostituta, si muove agile e spietato come l’altro nella prima fase delle operazioni. Collaborano con simpatia reciproca ad incursioni mozzafiato nel mondo della Triade honkonghese, e traffico di droga, riciclaggio di denaro sporco, prostituzione e gioco d’azzardo compongono una sinfonia a cui Lam non manca di assegnare uno dei suoi spartiti classici, fatti di brutti ceffi, inseguimenti, irruzioni, sparatorie, salti da altezze vertiginose e bombe a mano ruzzolanti a terra fino alla deflagrazione (fra tutte, la sparatoria con distruzione finale del ristorante va segnalata nella top ten del genere. Lam, non trovando più una sala vecchio stile hongkonghese, ne ha fatto ricostruire una simile in tutti i particolari. E’ importante – dice – che il film sia autenticamente di Hong Kong).
Kee, a differenza di Manfred, è ambizioso e corrotto, nasconde molto bene le reali motivazioni del suo intervento, ha montagne di debiti con la malavita e traffici loschi da nascondere, la sua caduta è già avvenuta e la resa dei conti arriverà inesorabile nello show down finale, tra fuoco e pallottole.
La vita li rende antagonisti, eppure entrambi condividono la frattura lacerante fra il male e il bene che li rende vittime e carnefici.
Anche alle spalle di Kee c’è una storia d’amore perduto. Era un’ex prostituta (Vivian Hsu), per lei ha rovinato reputazione e risorse, e, come per Manfred, la sua vita ha virato a 360° dal corso programmato.
La narrazione, che qualche critico sottolinea troppo lenta nella prima parte, sembrerebbe piuttosto rispondere, con i suoi tempi lunghi e una certa ripetitività delle immagini, all’esigenza di lasciare aperti i margini alla sorpresa, a quello svelamento della verità, spesso sepolta nel caos del reale e impercettibile a occhio nudo, che si mostra per epifanie inattese o solo dopo estenuanti ricerche.
La scena d’apertura è addirittura un fermo immagine totale, geniale ribaltamento delle regole della narrazione, è già un finale, un tutto che finisce dove comincia. L’effetto è tridimensionale, la camera percorre uno spazio vitreo, popolato da figure e oggetti bloccati come da un incantesimo, quindi action, tornano movimento, suono e colori per lo spettacolo della vita.
Il magico serpentone di fuoco che attraversa le strade di Hong Kong ferma la fuga finale in macchina di Kee. In un trionfo di rossi, dal sangue agli spari, all’incenso che brucia, il rito collettivo si compie, la purificazione è avvenuta, il Drago di Fuoco ha estirpato il Male. Con la sua vittima umana.