In un’intervista rilasciata a Michel Ciment, Michel Perez e Roger Tailleur, apparsa su «Positif» n. 102 del febbraio 1969, Polanski definisce Cul de sac (o meglio Cul-de-sac) il suo film più riuscito dal punto di vista cinematografico. Un meccanismo perfetto costruito a tavolino a partire da una location contraddistinta dall’andirivieni delle maree. Dopo aver esordito oltremanica con Repulsion (1965), storia “dozzinale” – sempre a detta del suo autore – ma ben resa sul piano della credibilità psicologica, il giovane regista polacco influenzato dalla letteratura di Gombrovicz e Ionesco (oltre che dal cinema ossessivo e voyeur di Carol Reed, Michael Powell e László Benedek) scopre l’isoletta di Lindisfarne, nel Northumberland, e in combutta col fido Gerard Brach vi ambienta un Kammerspiel, anzi un “Inselspiel” destinato ad accompagnare, a mo’ di immaginetta esplicativa, il lemma “polanskiano” in un’ideale enciclopedia dell’immaginario cinematografico.
I titoli di testa sono fulminanti: campo lunghissimo con taxi-catorcio in avvicinamento zigzagante, brano di Krzysztof Komeda che sembra il Mancini de La pantera rosa in acido e credits che si compongono a partire da una linea bianca che si contorce come un serpentello, ideale continuazione del “directed by Roman Polanski” che recide l’occhio di Catherine Deneuve in Repulsion facendo il verso a Un chien andalou. Ci troviamo in mezzo al nulla – che scopriremo essere il mare, almeno per dodici ore al giorno – e i due grotteschi figuri che arrivano nel taxi rubato (uno ferito, l’altro dietro a spingere), avvistano il luogo in cui tutte le azioni si svolgeranno fino all’esaurimento del parco personaggi e della trama: un’isola con un castello, anzi un antico villone cadente pieno di galline.
Dopo la barca de Il coltello nell’acqua (1962) e il primo dei suoi appartamenti del terrore (quello di Repulsion, cui seguiranno i condomini di Rosemary’s Baby e L’inquilino del terzo piano), Polanski inscena un “divertissement mortale” in riva al mare, capofila di una lunga serie che include la commedia Che? (1972), il dramma psicologico La morte e la fanciulla (1994) e il recente thriller The Ghostwriter (2010). Il livello di claustrofobia cambia da film a film, ma l’idea di fondo – una villa su una scogliera, o comunque isolata dal resto del mondo – resta. E il titolo del film, Cul de sac, è tutto un programma. Prodotta da Gene Gutowski (sodale di Polanski anche in occasione di Per favore non mordermi sul collo e Il pianista), la pellicola vanta un quartetto di protagonisti strepitosi. Abbiamo da un lato Donald Pleasence nei panni del maritino George (più volte apostrofato come “fairy” o “queer”, e persino scambiato per una donna da un Albie ormai delirante), unico abitante dell’isola insieme alla bellissima Teresa (Françoise Dorléac, sorella maggiore della Deneuve purtroppo destinata a morire in un incidente d’auto pochi mesi più tardi), dall’altro due criminali da strapazzo: il magrolino Albie (Jack McGowran, famoso attore beckettiano nonché futuro professor Abronsius nel “ballo dei vampiri”) e il robusto Richard, un Lionel Stander più sanguigno, newyorkese ed elementale che mai.
E poi c’è Katelbach, il capobastone a cui Richard telefona affinché venga a prenderli. Evocato ma assente, Katelbach è il Godot di questo scherzaccio da prete, non a caso il titolo tedesco del film è Wenn Katelbach kommt… (‘quando arriva Katelbach’) e per completismo va detto che Katelbach è anche il cognome dell’attore che recita con Polanski ne Le gros et le maigre (1961). Cul de sac rappresenta l’ultima occasione in cui il regista polacco riesce a trasferire sullo schermo lo spirito libero e selvaggio dei suoi cortometraggi di esordio, prima di sottostare, volente o nolente, a logiche industriali di vario genere. Il tutto senza appesantire affatto la narrazione, o renderla incomprensibile. Lo dimostrano non solo l’incredibile piano sequenza di otto minuti ambientato sulla spiaggia, con tre personaggi e persino il passaggio di un aereo (previsto dalla sceneggiatura), ma anche le scene esilaranti che vedono l’arrivo dei borghesissimi “ospiti”, con il gangster sequestratore trattato come un maggiordomo dalla vendicativa Teresa. Circo volante puro… con tre anni buoni di anticipo rispetto alla nascita dei Monty Python. Questo bel gingillo nero come la pece e grasso come la risata di Lionel Stander si aggiudicò l’Orso d’oro a Berlino nel 1966, battendo Masculin feminin di Godard e Divieto di caccia alle volpi di Peter Schamoni (il film simbolo del Nuovo Cinema Tedesco insieme a La ragazza senza storia di Kluge), e al pari del castello di Lindisfarne è rimasto perfettamente intatto, graffiante e sornione come la sera della prima. L’edizione in dvd a marchio Pulp video, zona 2, rispetta tutti gli standard audio e video e per quanto riguarda gli extra concede il minimo sindacale. Da non perdere il trailer in inglese.