Izumi (Megumi Kagurazaka) è la piccola e riservata moglie di uno scrittore di successo, Kazuko Yoshida (Miki Mizuno), protagonista di animati reading dei propri romanzi e incontri letterari di prim’ordine. Lei lo ascolta, devota e anonima, nascosta fra il pubblico, in casa indossa romantici abitini da cameriera, per fuori sceglie il kimono, come si addice ad una geisha di spirito, se non di fatto. In casa assiste il marito con la cura devota di un cane, e l’uomo la considera poco più che uno zerbino.
Sopra questo anonimo oggetto casalingo, infatti, posto davanti alla porta a tutela della purezza necessaria del focolare domestico, Izumi provvede ogni mattino ad orientare nella giusta direzione le pantofole lasciate dal marito che va al lavoro nel suo studio, lontano da casa, dalle 7.00 alle 21.00. L’uomo potrà così trovarle la sera pronte all’uso, e sedere sul divano a leggere e sorbire il suo the, ignorandola serenamente. Perfettamente ordinata in tutti i suoi angoli, la casa di Izumi è una piccola bolla asettica in cui la ripetitività compulsiva del gesto quotidiano mette al riparo da incursioni che irrompano dall’esterno a sconvolgerne il tessuto. Microcosmo autoreferenziale, annulla il resto del mondo in una sorta di ricostruzione artificiale di un Eden primigenio, precauzionalmente passato alla candeggina. Cosa scatena, allora, nella piccola Izumi, quel processo irreversibile di metamorfosi che la lascerà malmenata e sanguinante a terra nel più famoso quartiere a luci rosse della città, alla fine del film?
Koi no tsumi, “colpevole è l’amore”. La decisione di vendere salsicce in un supermercato per coprire la noia di intere giornate vuote (decisione gentilmente approvata dal marito) è la miccia di una imprevedibile reazione a catena.
Da un servizio di gravure idols, a cui è ingenuamente indotta da una donna che gira a “scoprire talenti”, fino al sesso a pagamento, con tutte le perversioni annesse e connesse, il passo sarà breve. L’incontro con Mitsuko (Makoto Togashi), universitaria di giorno e per il resto belle de nuit, farà il resto, complicando la vicenda con l’addensarsi di scenari di volta in volta più cruenti e scellerati, fino a toccare il nocciolo più intoccabile, il tabù estremo, l’Edipo ancestrale e le sue inconsce macchinazioni.
Travolta nel vortice prismatico di stili di vita a cui adeguarsi può perfino far scoprire vocazioni inusitate e scatenare complicità mai supposte prima, Izumi diventa vittima consapevole e, in definitiva, complice.
Lo sguardo di Sono Shion sulla putrefazione di una società opulenta fuori e putrefatta al suo interno non conosce mezze misure. Andare dritti al nodo del problema è una scelta morale ed estetica insieme, e si traduce in un singolare impasto di thriller/horror, dalle suggestioni oniriche molto lynchiane, con ampie incursioni in un immaginario surreale denso di citazioni che culminano nell’insistito richiamo al Castello di Kafka.
Film di contrasti lancinanti, un tempio della cultura, l’Università di Tokyo, dipartimento di Lettere, e il più malfamato quartiere a luci rose della città, sono i poli di una topografia dell’orrore in cui Izumi si muove come la piccola mosca presa nella tela del ragno. Ma, a differenza della mosca, Izumi collabora alla sua perdizione, non c’è nulla che separi buoni e cattivi nel cinema di Sono, anche se non è la chiave psicologica quella più adeguata per la lettura di Koi no tsumi.
Si tratta, in realtà, di una autentica performance multiforme, frutto della perfetta convergenza di più modelli stilistici e linguaggi che, da quello del cinema ricco di citazioni, dai clockwork oranges di Kubrick alle atmosfere morbose di Belle de jour di Buñuel, attinge alla letteratura e arriva alle arti visive con esplosioni cromatiche da autentica action painting.
Diviso in cinque capitoli (Izumi Kikuchi, Il castello, Ozawa Mitsuko, Il club delle ammaliatrici, La fine) del romanzo ha la struttura proteiforme che si avvita in un continuo sovrapporsi di rivoli narrativi. Il filo conduttore della descensio ad Inferos di Izumi, da mogliettina devota a prostituta, è percorso da continui flashback che intervengono a perturbare il tessuto narrativo, in apparenza per dipanare una misteriosa vicenda di cadaveri putrefatti e parti anatomiche sezionate trovate dalla polizia, in realtà avvitando su sé stesso lo scenario deformato di un’umanità che ha perso ogni direzione e vaga senza senso fuori dall’inaccessibile Castello kafkiano.
Non c’è redenzione possibile là dove sono venute a mancare tutte le condizioni perché ciò avvenga, e il reale non è più che un deserto che a tratti s’illumina di visioni da incubo. Crollate tutte le barriere morali, venute meno tutte le clausole del patto sociale, vanificate tutte le risorse umanitarie per bancarotta dichiarata di un’umanità in stato comatoso, non resta che dichiarare colpevole di questo disastro l’amore, koi no tsumi. Per la vita, per un uomo, per sé stessi: l’amore non ha più cittadinanza, dunque mercifichiamolo, estirpiamolo, violentiamolo, ridiamone. Ma, soprattutto, togliamogli la parola. “Non ho mai imparato davvero il vero significato delle parole, so semplicemente il giapponese e un pò di una lingua straniera e rimango ancora dentro le tue lacrime” recita Mitsuko, professoressa e prostituta.
Discarica di inganni e simulazioni l’amore, nelle sue varie declinazioni (filiale, materno, paterno, coniugale, amicale) è percorso da fratture che si ricompongono in ordine diverso, diventando squarci aperti sulla follia, tradotta in levigati manichini pullulanti di insetti e marciume sotto la superficie. Il linguaggio trasuda fisicità, le parole si scontrano con forza e impatto immediato, famiglia, istituzioni, rapporti umani, tutto è posto in una composizione aggressiva di immagini, climax ascendente di orrore graduato con sapiente distillazione di scene. Nell’immagine finale di Izumi a terra, con quel rivolo di sangue sul viso, la macchina sembra però raccogliersi pietosa. Forse un ricordo dell’innocenza perduta.
Il Dvd Far East distribuito da CG è di ottima qualità ma al minimo storico per quanto riguarda i contenuti speciali, che includono semplicemente un’introduzione al film intitolata “Bella (e dannata) di notte” curata da Pauvre Lelian è stampata sul risvolto di di copertina