I Vitelloni è uno dei sette film di Fellini nell’elenco dei 100 film italiani da salvare, in quel progetto voluto dalle Giornate degli autori in collaborazione con Cinecittà Holding: “100 pellicole che hanno cambiato la memoria collettiva del Paese tra il 1942 e il 1978“, recita la didascalia. E, potremmo aggiungere, anche il vocabolario.
Parlare di “vitelloni” fino al ’53 fu prerogativa di pescaresi come Flaiano, sceneggiatore del film con Fellini e Pinelli. Lessico “famigliare” della sua città, da allora divenne parola “nazionale”, adottata dal film che decretò la fama di Fellini e impose al mondo il suo genio. Leone d’argento a Venezia nel ’53 e candidato agli Oscar nel ’58, trovò ampia distribuzione anche all’estero e la parola, traghettata dal film al fenomeno di costume, finì per diventare uno di quei contenitori di senso che, meglio di altri, etichettano modelli di vita e caratteri ambientali della provincia italiana nel secondo dopoguerra.
Singolare rimbalzo semantico dal mondo delle sudate fatiche agresti allo sfaccendato perder tempo nel bar in piazza, l’idea del vitello da ingrasso, pigro e sonnolento, che mangia a sbafo e non pensa al futuro, è adesione perfetta del fonema all’immagine che suggerisce.
Lavoro non ce n’era molto, in quegli anni, e comunque occuparsi non era nelle corde di certa gioventù piccolo borghese, nata e cresciuta nell’orizzonte ristretto di piccole città in cui la vita si trascinava senza prospettive. E’ il grigiore di tempi orfani del clima eroico che le guerre portano con sé, insieme al carico di orrore, e lo spleen diffuso che pervade i giorni inerti non si traduce per Fausto, Riccardo, Alberto, Leopoldo e Moraldo se non in un tirar tardi senza meta e senza soldi, senza idee né ideologie. E’ un mondo esclusivamente felliniano quello de I Vitelloni, un guardare all’Italia che cambiava fuori da sociologismi e prese di posizione ideologiche. Ricomposizione memoriale di un segmento di storia patria e personale, Fellini sceglie la strada eterodossa della poesia per immagini, dell’umorismo abrasivo che non lancia scomuniche, sa bene quanto queste invecchino nel tempo, perdendo smalto e immediatezza. I suoi “vitelloni” appartengono alla contemporaneità di ogni epoca, collocati come sono in quel luogo epifanico in cui la realtà si presenta e parla di sé al riparo da furori iconoclasti. Non è stata sua esperienza diretta quella di cui parla, il ragazzo Fellini è stato buon spettatore e ora si mette dietro la macchina da presa: “Ho lasciato Rimini quando avevo diciassette anni. Io davvero non conosco i giovani che frequentavano le strade, i play boy che ritraggo ne I Vitelloni, ma li osservo. Loro erano più anziani di me, dunque non erano i miei amici, ma ho scritto quello che ho visto di loro e delle loro vite, e su quello che ho immaginato. Per un giovane uomo a Rimini la vita era inerte, provinciale , opaca, sorda, senza stimoli culturali di alcun tipo. Ogni notte era la stessa notte. ”
Il suo inconfondibile trascolorare dalla realtà al suo doppio riprende qui, “ho scritto quello che ho visto di loro e delle loro vite, e su quello che ho immaginato”, dopo la favola amara e un po’ grottesca dello Sceicco Bianco, e mentre la costruzione narrativa resta ancorata alla realtà, la fantasia prende strade inattese e compone quadri di straordinaria forza visiva e capacità di penetrazione psicologica.
Piccoli uomini e donne senza storia, giovani spensierati e non, ridanciani o malinconici, spavaldi o timorosi, sono personaggi che hanno trovato un autore e che dureranno oltre il nostro oblio.
Fausto (Franco Fabrizi ) che amoreggia con Sandra (Leonora Ruffo ) sorella di Moraldo (Franco Interlenghi) è il bello del gruppo, scapestrato e “sciupafemmene”, si muove guidato più dal testosterone che dal cervello, seminando guai a destra e a manca. Intorno a lui una triade formata da Alberto (Alberto Sordi), Riccardo (Riccardo Fellini) e Leopoldo (Leopoldo Trieste), è dipinta a pennellate rapide, ognuno con un tic, un carattere, un gesto indimenticabile, come quello, il più famoso, dell’ombrello che Alberto fa ai lavoratori dei servizi stradali, con quel che ne consegue.
C’è infine Moraldo, con la sua mitezza malinconica e le passeggiate notturne a guardare le stelle. Solo lui, il più giovane e, all’apparenza, il più remissivo, quasi uno sconfitto per definizione, saprà reagire e andarsene. Non sa dove, ma sul treno sale lo stesso e la voce che saluta il piccolo Guido che lavora in ferrovia, l’amico dei discorsi all’alba, sulla panchina della stazione, è quella di Fellini.
Dice solo “Ciao Guido” e parte alla ricerca di una nuova patria. E noi sappiamo che la troverà, a Roma e a Cinecittà. Partirà infatti da lì la lunga strada felliniana della memoria, con il racconto di queste esistenze di basso profilo incardinate con forza contro la dispersione e la frammentarietà delle cose di questo mondo.
“I Vitelloni” fa parte delle ristampe curate da Mustang Entertainment, nuovo marchio consociato con CG Home video che recupera capolavori del passato e DVD ancora inediti per il mercato italiano. Insieme a I Vitelloni, di Federico Fellini sono stati ristampati per la stessa collana anche Giulietta degli spiriti, La Dolce Vita e Lo Sceicco Bianco Gli extra de “I Vitelloni” contengono una presentazione di Maurizio Porro, il documentario generico cinema forever, pagine d’epoca e una presentazione del film.