venerdì, Novembre 15, 2024

Il cobra di Robert Siodmak (Dvd CG, I classici ritrovati, 2012)

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Titolo Originale: Cobra Woman
Origine/Anno:Usa, 1944
Video: 4/3 1.37:1
Audio:Inglese Dolby Digital Mono | Italiano Dolby Digital Mono
Sottotitoli: Italiano
Extra: Trailer Cinematografico

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La fama di Robert Siodmak è indissolubilmente legata al ruolo determinante che egli ha avuto nella codifica degli stilemi del noir-thriller, un genere che, in quella Hollywood degli anni ’40 in cui schiere di registi si confrontavano con le diverse sfumature del nero, ha contribuito a far maturare con inesauribile verve sperimentale e inconfondibile tocco modernista, specialmente nel periodo che va da ’44 al ’49 (La donna fantasma, 1944; Quinto: non ammazzare, 1944; La scala a chiocciola, 1945; Lo specchio scuro, 1946; I gangsters, 1946; L’urlo della città, 1948; Doppio gioco, 1949;). Ma di generi Siodmak ne ha attraversati molti altri, dall’horror allo storico-biografico, fino al film d’avventura come appunto Il cobra (1944) – cosceneggiato da Richard Brooks -, che è una favola esotica dagli echi salgariani, dove aleggia un aroma sensuale e misterioso che ricorda Le mille e una notte. Un filone su cui Siodmak ritornerà circa otto anni più tardi, inserendovi più azione (acrobatica) e commedia (circense), con quel perfetto meccanismo di spettacolo che è Il corsaro dell’isola verde (un modello di intrattenimento poi ripreso, checché se ne dica, dalla saga Pirati dei Caraibi – lasciamo stare con quale tenore artistico). Al di là di questo, la linea tracciata da Il cobra (che a sua volta non può prescindere dalla lezione del capolavoro di Whelan, Berger e Powell, Il ladro di Bagdad, 1940) sarà ripresa successivamente da un altro grande cineasta, Fritz Lang, che nel 1959 firmerà il celebre e bellissimo (ma purtroppo ancor’oggi  troppo sottovalutato) dittico composto da La tigre di Eschnapur e Il sepolcro indiano.

Diva assoluta de Il cobra è la dominicana Maria Montez, bellezza latina dalle forme prosperose (madre dell’altrettanto attraente Tina Aumont) che, a quei tempi, aveva dato vita a un genere a sé con una serie di pellicole d’avventura in costume, rigorosamente esotiche e in coppia con il macho Jon Hall, in cui furoreggiava un vivace Technicolor. In questo film è Tollea, una seducente isolana che viene rapita da un losco omaccione muto (Lon Chaney jr.), il giorno prima delle proprie nozze. Allo sfortunato fidanzato Ramu (Hall) non rimane che dirigersi sull’Isola del Cobra, il luogo dove Tollea è nata e in cui tiranneggia la sorella gemella Nadja (sempre Montez), sacerdotessa e sovrana di una tribù di adoratori del cobra. A dare man forte a Ramu in questa avventura, c’è il vispo e funambolico Kado, interpretato da Sabu, scoperto qualche anno prima in India da Robert J. Flaherty, che lo diresse ne La danza degli elefanti (1937), e arrivato a Hollywood nel 1942 dove lo assunse subito la Universal. Turbanti con dorate decorazioni fitomorfe, abiti eccentrici tempestati di paillettes, palazzi giallo canarino con tetti azzurri, gioielli e ornamenti a forma di cobra quanto mai allusivi fanno del film di Siodmak una perla del camp (non a caso era il film feticcio di Kenneth Anger, oltre che un amore di Andy Warhol). Il motivo di questa piega del film è presto detto: se nei noir Siodmak ricercava le potenzialità plastiche del bianco e nero, in sofisticati rapporti fra inquadratura, messa in scena e resa luministica, ne Il cobra non può che concentrarsi sui prodigi cromatici del Technicolor, mettendo tutto, dall’impianto scenografico all’assortimento coloristico dei costumi, al servizio di morbide tonalità pastello. Lo si può ben vedere nella scena più camp del film, quella della scatenata danza rituale intorno a un fallico cobra di gomma che si allunga alla ricerca della Montez, che è un tripudio di luccichii e tinte stravaganti. Siodmak mette in chiaro le cose fin da subito: se di film d’evasione si tratta è meglio spingere al massimo il dispositivo finzionale verso l’artificio, verso la teatralità ostentata, verso il sensazionalismo, senza timore dell’eccesso. Per usare uno slogan: tanto più finto, tanto più credibile. Con questa preliminare onestà di fondo, lo spettatore viene immediatamente coinvolto, senza resistenza, in un gioco di prestigio tutt’ora spassosissimo.

Come di consueto per la collana “I classici ritrovati”, edizione basic con doppia traccia audio, originale e italiana, sottotitoli e  trailer cinematografico.

Diego Baratto
Diego Baratto
Diego Baratto ha studiato filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si è laureato con una tesi sulla concezione del divino nella “Trilogia del silenzio di Dio” di Ingmar Bergman. Da sempre interessato agli autori europei e americani, segue inoltre da vario tempo il cinema di Hong Kong e Giappone. Dal 2009 collabora con diverse riviste on-line e cartacee di critica cinematografica. Parallelamente scrive soggetti e sceneggiature.

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