Un gatto nero (kuroneko), occhi gialli, magnetici, pelo brillante, compatto, appare e scompare misterioso in questo bakeneko eiga (film di gatti fantama), un horror liberamente ispirato a “Il ritorno del gatto”, favola giapponese del repertorio popolare che presta a Shindo Kaneto l’occasione per una storia intrisa di magia e mistero, realtà e fantasia, effetti speciali che scuotono con irruzioni fantasmatiche le solide certezze di una ripresa naturalistica, fatta di radure silenziose, chiome gonfie di alberi ondeggianti, labirintico incrocio di fusti di bambù nella foresta attraversata dai samurai. Il nero è protagonista, come in Onibaba (1964), attenuato da una ricca gamma di grigi che sfumano in trasparenze lattiginose e fluttuanti nei costumi delle due protagoniste, figure di sogno che ricordano la bellissima Wakasa de I racconti della luna pallida di agosto, capolavoro di Mizoguchi (di cui Shindo fu collaboratore), donna tentatrice, eppure così fragile e indifesa nel suo inconsistente oscillare tra reale e irreale, mentre trascorre fra le stanze del “palazzo dell’amore” dove si rompono i vincoli famigliari di Gensjuro. Ma ancora i grandi Maestri tornano nel disegno leggero, quasi un volo, di Yone, la madre (Nobuko Otowa, eccezionale nel ruolo di madre anche in Onibaba) e Shige, la moglie (Kiwako Taichi), in una danza di amore e morte in cui affiorano suggestioni e movenze colte da Rashomon di Kurosawa, dove convivono la carica ferina e sensuale del brigante Tajomaru con la trasparenza impalpabile del velo di Masago, appena sollevato dal vento. L’epoca è la stessa, un Giappone medievale devastato da guerre di clan, percorso da manipoli armati di ronin (( samurai senza padrone del Giappone feudale, decaduti in seguto alla perdita di potere del loro daimyo, signore a cui prestavano servizio, e ridotti alla condizione di mercenari. )) disperati alla ricerca di cibo e razzie, donne rimaste sole in un mondo che le stupra, le costringe alla fuga e infine le trasforma in demoni assetati di vendetta. Onibaba e Kuroneko nascono da identica matrice, pur nello sviluppo diverso delle vicende raccontate. Nel primo le parole della didascalia d’apertura, “Un buco profondo e nero la cui oscurità è arrivata dalla notte dei tempi fino ai nostri giorni”, preparavano la caduta finale verso l’inferno delle due donne, culmine di una fuga travolgente chiusa dall’urlo straziante della vecchia: “Sono un essere umano!”. Qui l’inferno è il regno di divinità maligne con cui le due donne hanno stipulato un patto diabolico: uccidere tutti i samurai e succhiarne il sangue alla gola, trasformandosi in felino nero miagolante durante l’amplesso a cui li hanno attirati con seducenti evoluzioni. Il martellare delle percussioni rompe silenzi profondi, musica concepita come pensiero unico che impregna di sé tutti gli strumenti in un crescendo orgiastico, ma la spettralità dell’elemento onirico/fantastico lascia spazio anche alla dolcezza di momenti elegiaci che in Onibaba sono assenti, annullati dalla misura estrema di un racconto teso, lancinante, come avviluppato su se stesso, che non consente soste e trova in questo la sua straordinaria forza. Il Kaidan eiga classico, modello narrativo di matrice Tokugawa (1603-1867), in cui convivono realtà fisica registrata con cura calligrafica ed elementi soprannaturali resi in chiave allegorica, trova in Kuroneko una realizzazione più puntuale, gli stilemi rientrano nel solco della tradizione narrativa giapponese più ortodossa, ma Shindo appartiene a quella generazione “di mezzo” che, come i suoi Maestri, non rinuncia a porsi con occhio critico di fronte alla realtà, proiettando sullo sfondo della grande Storia vicende individuali di vita e di morte, sesso e paura del soprannaturale, uomini e donne ridotti alla pura sopravvivenza dai disastri della guerra, dannati della terra e potenti signori che li tengono in ostaggio in un mondo da cui sembra sparita ogni pietà (esemplare, in questo senso, Sanshô Dayû, L’intendente Sansho, di Mizoguchi). Una madre e sua nuora vivono in una capanna isolata e aspettano Nachi, il figlio e marito arruolato da tre anni e sparito senza più traccia. Violentate da uomini messi in scena con le sembianze di belve preistoriche e morte nel rogo dell’abitazione, tornerano come fantasmi a consumare la loro vendetta. Nella sequenza iniziale, di soli cinque minuti, Shindo pone le istanze più forti del suo discorso politico, e la sfida al vecchio sistema feudale, alla violenza di cui si è nutrito e a quella, ancora più brutale, di coloro che l’hanno abbattuto sostituendosi ai vecchi padroni, adombra nella sua metafora le condizioni di un presente guardato con un forte pensiero critico, la condizione femminile, la logica del potere, lo scacco esistenziale in un mondo abbrutito dalla violenza imperialista, sono sottesi alla filigrana che trasfigura in favola i contorni amari della realtà. C’è un elemento ancora da sottolineare, in questa storia, ed emerge, forte, nella seconda parte, al ritorno di Nachi, contadino vittorioso con la testa mozzata al nemico invincibile avvolta in un fagotto sulle spalle. Raiko Minamoto, capo dei samurai, lo innalza al suo rango, lo denomina Yabu no Gintoki e gli affida l’incarico di eliminare il fantasma che aspetta i samurai alla Porta di Rajomon per ucciderli. Parte da qui quel flusso ondeggiante delle scene che rimanda al teatro Nô, l’attenzione si sposta quasi completamente sul versante degli affetti individuali, si scompagina del tutto lo spartiacque tra figure reali e fantasmi, quasi che si possano annullarne i confini ignorandoli. Il grido disperato “Madre!” di Nachi, costretto a trafiggere con la sua katana quello che, pure, è un fantasma diabolico, la dolcezza di quei sette giorni d’amore reale con il suo uomo ritrovato che costano a Sighe la caduta eterna nell’inferno, sono una componente importante di un film che è impossibile definire sotto un’unica etichetta, opera di un Maestro capace di modulare registri diversi con grande perizia, parlando con pietà profonda di una condizione umana che attraversa i secoli restando immutata e sorda.
Esce il prossimo 18 ottobre 2011 per Criterion Collection, una doppia edizione DVD di Kuroneko, il capolavoro di Kaneto Shindo, si tratta, come consuetudine per Criterion, di una nuova versione restaurata, con la traccia audio mono originale non compressa nella sola versione Blu-Ray. Entrambe le edizioni (DVD tradizionale e Blu-Ray) includono una video intervista con il regista Kaneto Shindo, un’intervista con Tadao Sato, noto critico cinematografico, il trailer originale e una nuova traduzione in inglese per quanto riguarda i sottotitoli. Il booklet incluso include un saggio di Maitland McDonagh e un estratto dell’intervista di Shindo rilasciata nel 1972 a Joan Mellen, in pratica l’unico contenuto presente anche nella versione pubblicata da Eureka Video nella serie Masters of Cinema, i cui contenuti speciali erano ovviamente molto ridotti rispetto all’offerta Criterion.
Titolo Originale: Yabu no naka no kuroneko
Regia: Kaneto Shindo
Interpreti: Nakamura Kichiemon, Otowa Nobuko, Taichi Kiwako, Sato Kei
Durata: 1.47
Origine e anno: Giappone 1968