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La caduta dell’Impero Romano di Anthony Mann

La caduta dell’Impero Romano di Anthony Mann, ultimo kolossal hollywoodiano sulla storia di Roma, prima ancora che dell’Impero Romano avrebbe potuto intitolarsi la caduta dell’impero finanziario di Samuel Bronston, produttore.
Il più grande set cinematografico mai realizzato prima richiese due anni fra progettazione e messa in opera. Su un’area di oltre 24 ettari alla periferia di Madrid, in un magnifico scenario naturale, fu ricostruito un autentico oppidum romano, con grandioso dispiegamento di mezzi e mano d’opera. Per il Foro Romano, Campidoglio, templi e interni della domus imperiale non si badò a spese, e la fotografia di Robert Krasker, con la colonna sonora di Dmitri Tiomkin, segnata dal gusto tutto russo per l’effettismo e il cromatismo romantico (Golden Globe 1965 per la migliore colonna sonora) collaborarono alla spettacolarità dell’opera.
Inaspettatamente, però, il film fu un flop colossale al botteghino, le cospicue risorse del produttore furono del tutto prosciugate e a Mann non restò che dichiarare: “… il pubblico, nei film storici, è abituato da decenni ad assistere a un continuo trionfo dei Romani. Qui, l’impero ho voluto rappresentarlo alla sua fine; la grandezza e lo splendore appariscente è figlio della corruzione e dell’arroganza perpetrata nei secoli dai Romani. Per questo motivo, forse, lo spettatore è rimasto deluso…”

Osservazioni che, ispirate  da autentica e onesta convinzione, peccano parecchio di senso della storia. Il titolo è fuorviante.
Non di caduta, infatti, si tratta, ma, nell’ottica del regista, che non volle consulenti storici al suo fianco, di forti segnali di un declino inarrestabile della grande Roma, individuati nelle vicende della famiglia di Marco Aurelio, l’ultimo degli Antonini, imperatore/filosofo morto di peste nell’assedio di Vindobona (oggi Vienna), stando alle fonti storiche, avvelenato per mano di un sicario secondo Anthony Mann.
Una catastrofe annunciata, quella del millenario Impero, a cui tutto collaborò, ma soprattutto, nella lettura del regista, le responsabilità individuali, la caduta dei valori morali, la colpevole inosservanza di quel mos maiorum che aveva fatto grande Roma nei secoli.
Le invasioni barbariche divennero allora, dal III secolo in poi, un pericolo sempre più minaccioso fino allo sfondamento del limes e alla caduta definitiva dell’Urbe.
Al di là delle indubbie inesattezze storiche, tipiche di un modo tutto americano e romanzato di ricostruire la storia del mondo, quello che fa del film un capolavoro mancato sono sceneggiatura e dialoghi, nonostante le firme prestigiose di Ben Barzman, Philip Yordan e Basilio Franchina.
Un cast stellare è così appiattito da un copione sovraccarico di scene di massa, dialoghi improponibili e citazioni prese di peso da Ben Hur, Cleopatra e Quo Vadis.
Una giovanissima Sophia Loren, reduce dai successi di El Cid, è qui nelle vesti della dolce Lucilla, figlia adorata di Marco Aurelio, innamorata del biondo Stephen Boyd/Gaio Metello Livio.
L’attrice non sembra del tutto a suo agio nella parte della mancata Vestale, mentre Livio, il giusto per antonomasia, è il perfetto contraltare del cattivo per elezione Commodo/ Cristopher Plummer, figlio degenere dell’ imperatore, indegno, agli occhi del padre, di successione al trono.
Marco Aurelio, il vecchio e stanco imperatore che scriveva in greco i “Pensieri a sè stesso” la sera, in tenda, dopo l’infuriare  della battaglia contro i barbari lungochiomati, è Alec Guinness, all’epoca prestante cinquantenne su cui il trucco invecchiante poco potè, e l’effetto è abbastanza straniante.
Marco Aurelio vorrebbe Livio come suo successore, con ciò votandosi a morte se non precoce, data l’età, certo indotta. Commodo e i suoi cortigiani non possono certo esser d’accordo con il suo volere.
Al suo fianco è Timonide, il saggio James Mason consigliere di corte, prodigo di stoiche sententiae capaci di ammansire i più selvaggi barbari, con i quali arriverà  perfino a convivere, lontano da Roma, corrotta capitale di tutti i vizi.
Questa la cerchia famigliare degli Antonini, culla di amori e batticuori, ma anche covo d’intrighi e malefatte, come si conviene a tutti i palazzi del potere. Fra i collaboratori esterni, ecco Mel Ferrer, il cieco indovino che, con spericolata rivisitazione del mito e della storia, diventa longa manus del partito all’opposizione per togliere di mezzo col veleno l’ingombrante Marco Aurelio.
E, ancora, Vallomar, capo dei barbari, un John Ireland in bilico fra l’odio eterno contro l’usurpatore imperiale e il doveroso riconoscimento della sua superiore civiltà.
Infine, un giovanissimo Omar Sharif, re dell’Armenia, presta il suo fascino orientale per un brevissimo cameo: marito di Lucilla, matrimonio di Stato atto a sancire il patto di alleanza strategica con Roma contro il nemico orientale, sarà più volte dimenticato dalla stessa nei ritorni a Roma fra le braccia di Livio, suo grande amore. Con lui finalmente la fanciulla coronerà il suo sogno, ma solo nel finale, dopo tre ore di andirivieni collettivo e caotico, abbandonando Roma dopo esser scampata a sicura morte sul rogo decretato dal fratello, giustamente eliminato nel duello all’ultimo sangue dal prode Livio, duce supremo di tutte le legioni e portatore di sani valori morali.
L’Urbe resta così nelle mani di loschi faccendieri che la venderanno al miglior offerente, la trattativa prosegue con voci fuori campo, mentre arrivano gli attesi titoli di coda.
Al di là delle ingenuità e sorvolando sulla rozzezza della ricostruzione storica e del tratteggio dei personaggi, rivedere oggi The Fall of the Roman Empire può essere utile per ripensare, a posteriori , ad un momento della storia del cinema anni cinquanta/sessanta, gli anni del peplum, che riempì le platee con grande potere di fascinazione, anche quando finì nelle derive del cosiddetto “cinema dei forzuti” modello Maciste, Ercole e Sansone.
The Fall segnò la fine del genere a tutte le latitudini, e fu il suo canto del cigno per quella dignitosa grandezza che lo affranca dai prodotti a basso budget di epigoni minori.
Dopo la lunga serie di successi nel western, suo genere di elezione, Mann, arrivato all’epica e consacrato nel ’61 dal successo di El Cid , volle trasferire l’eroe “manniano”, nato e cresciuto con James Stewart nelle praterie del West, sullo sfondo della storia millenaria di Roma.
Era quasi una cronaca annunciata, si trattò solo di piegare un po’ la verità storica alle esigenze della rappresentazione di un mondo in cui buoni e cattivi  sono divisi in modo molto manicheo, le colpe dei singoli sono duramente pagate dai più e si può ancora candidamente ignorare (o far finta) che le leggi dell’economia che dominano il destino dei popoli debbano ancora essere inventate.
Eppure, tra i film sul mondo antico, The Fall of the Roman Empire merita comunque un buon posto per l’impegno scenografico, per la buona fotografia e per alcuni momenti in cui la regia, tralasciato l’impegno ideologico e la caratterizzazione dei personaggi, si abbandona al piacere dei grandi spazi e delle riprese panoramiche. L’ottimo cast, benchè non al meglio delle sue potenzialità, riunisce nomi che è sempre un piacere vedere tutti insieme su un unico set.

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