E’ uscito il 20 marzo per la collana Noir D’essai della Sinister Film il Dvd di Maschere e Pugnali diretto da Fritz Lang nel 1946. Se si esclude un’edizione Ermitage di pessima qualità, questa è l’unica disponibile in Italia che si aggiunge a quella internazionale pubblicata dalla Artisan. Presentato nel formato 1,37:1 e con audio Dual Mono, è una buona edizione che integra scene inedite per quanto riguarda il setup italiano e che include la versione originale, con sottotitoli inglesi. Extra ridotti al minimo, come nella versione Artisan, e costituiti da una foto galleria tra foto di scena, e poster internazionali. (N.d.r.)
Maschere e pugnali
Cloak and Dagger, USA 1946 durata 106’ b/n
di Fritz Lang con Gary Cooper, Lili Palmer, Robert Alda, Vladimir Sokoloff, Marc Lawrence, J. Edward Bromberg
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“Pace.Non c’é pace. Questo é l’anno uno dell’era atomica, che Dio ci aiuti se pensiamo di poter nascondere questo segreto al mondo…”
Con queste parole di Alvah Jesper, un Gary Cooper un po’ impacciato nella parte di spia (ma forse é proprio come Lang voleva che fosse) doveva finire Cloak and Dagger, lungometraggio del ’46 prodotto in pieno periodo americano. Dopo Man Hunt (1941) Hangmen Also Die (1943) e The Ministry of Fear (1944) Lang avrebbe chiuso così la tetralogia antinazista con un bel gancio anche nei fianchi di un’America che solo l’anno prima sganciava Little Boy su Hiroshima e Nagasaki.
“Al di fuori del cinema non esiste altra forma d’arte capace di offrire un quadro così vasto della nostra epoca” sosteneva il regista, ed infatti l’America lo censurò, tagliando quel finale.
Naturalmente lui, Albert Matz e Ring Lardner jr., suoi ottimi sceneggiatori, non tardarono a finire, dopo qualche tempo, nella black list del senatore McCarthy, onore che spettò anche a Bertolt Brecht, co-sceneggiatore in Hangmen Also Die. Per un’opera dell’ingegno umano, come un film di Lang é, resistere a manipolazioni tanto dissennate quanto cruente mantenendo alto il suo valore é indice di ottima matrice, anche se Cloak and Dagger ne uscì come azzoppato, con un finale molto politically correct (lui parte, lei resta, si salutano promettendosi amore eterno e “Tornerò” é l’ultima parola). Hollywood fu salva, il film disinnescato, il finale di Casablanca (1942) qui si ribaltò perché lui parte in volo e lei resta, ma le ultime parole del bel tenebroso Rick del Café America, quell’Humphrey Bogart amato dalle folle planetarie, sembrano profetiche:
“A questa storia manca ancora il finale“.
Il richiamo alla tradizione della spy story é evidente fin dall’inizio. Jesper, un tranquillo docente universitario americano di fisica nucleare, uno a cui Lang fa dire: “Una volta volevo diventare agente segreto, ma é un sogno che ho abbandonato a otto anni”, viene ingaggiato, senza troppe possibilità di defilarsi, da Le Maschere e i Pugnali (sezione dei servizi segreti americani dedita a faccende di guerra) per impedire che i Tedeschi costruiscano una bomba nucleare. Jesper accetta di buon grado, l’impresa é nobile per un idealista come lui, potrà incontrare e collaborare con un’anziana, grande scienziata conosciuta in tempo di pace, sembra che le difficoltà dell’impresa non lo sconvolgano. Gli step si susseguiranno, infatti, senza eccessivi soprassalti, lo studioso sembra protetto da un’invisibile immunità, non scalfita neppure da errori fatali commessi per ingenuità (lui che non si fa fotografare in aereoporto diventando così più che mai sospetto, la vicenda del gatto condita di sottile umorismo, la sua spontanea, anche se doverosamente controllata, attenzione alle belle forme muliebri, debolezza pericolosa in tempo di spie).
Dalla Francia dei Pirenei alla Svizzera fino all’Italia, la storia si snoda così fino a quello che, nonostante non manchino morti e duelli, é diventato un lieto fine: i due eroi (la coppia Jesper/Gary Cooper, Gina/Lilli Palmer) si salvano sopravvivendo a notevoli forze di fuoco, finendo pure per innamorarsi, mentre il vecchio scienziato italiano, Polda, (un brillante Vladimir Sokoloff) ricattato dai nazisti che gli hanno sequestrato la figlia per costringerlo a lavorare alla bomba, viene prelevato e portato in salvo. Andrà anche lui in America con quell’aereo, si é scoperto che la figlia é stata uccisa da tempo e fatta proditoriamente credere ancora viva, il suo genio sarà messo ora al servizio di una causa nobile e dal Nuovo Mondo partirà una nuova era di pace e prosperità per i popoli.
La storia si chiude qui, ma naturalmente, come sempre accade, l’effetto di tutte le censure é quello del boomerang e un film, che indubbiamente non appartiene ai capolavori del grande regista, acquista dalla sua particolare vicenda un valore aggiunto, divenendo testimonianza di un’epoca in cui non solo nel Terzo Reich era rischioso “pensare quello che si voleva e dire quello che si pensava”, come annotava il buon Tacito in tempi non sospetti. La mano di Lang esce comunque indenne con il suo tocco da maestro, e il messaggio affidato al suo lavoro é rimasto intatto, anzi, si é arricchito, alla stregua di un film/verità, della rottura ideale della quarta parete.
“Vedete signori di cosa é capace l’essere umano? – sembra dire il regista affacciandosi dalle quinte – Sperling, il produttore, si lamenta del fatto che il film comprometta le sue aspettative al box-office, tagliamo dunque quella scena finale e spariranno dallo schermo le masse di schiavi che lavorano alla bomba e 60.000 morti gettati in una buca. Ma, soprattutto, tagliamo le parole dello scienziato che torna in Germania e vede tutto questo. Non importa che il film rischi di diventare un feuilleton melodrammatico con tocchi rosa,l’immaginario dell’uomo medio americano sarà salvo”.
Non si poteva però tagliare tutto il film e, a più di sessanta anni di distanza, il suo smalto é ancora vivo. Jesper pronuncia infatti, a pochi minuti dall’inizio, le parole che non si potevano tagliare:
Per la prima volta mi fa ribrezzo essere uno scienziato. […] In pochi anni, vedi, forse potremo disintegrare la struttura atomica di questa mela, e questa diverrà una bomba. L’energia di questa piccola mela potrà polverizzare questa università, l’intero paese, i begli ospedali, le biblioteche, le magnifiche scuole… Senza parlare poi di chi ci vive. Ma non saremo mai capaci di fare una sola mela. Eh, corriamo avanti a noi stessi: la società non é degna dell’energia atomica. Per la prima volta io sono spaventato: migliaia e migliaia di scienziati stanno lavorando insieme a costruire che cosa? Una bomba! Ma chi avrebbe mai finanziato la società, prima della guerra, per battere la tubercolosi? E quando mai avremmo dato un miliardo di dollari per vincere il cancro?
Lang non vuole che si dimentichi il discorso della mela e allora, verso il finale, fra le macerie di una Roma dalle suggestioni rosselliniane, fa mangiare con gusto una mela a Jesper e Gina, mentre l’uomo esclama:”La mela é un frutto pieno di energia!” Se, come sosteneva Kazan, “La macchina da presa é più di un registratore, é un microscopio, penetra, entra dentro le persone e consente di vedere i loro pensieri più intimi e nascosti”, nelle mani di Lang diventa una bacchetta magica capace di modulare, con aristocratica leggerezza, mistero e melodramma, tragedia e commedia, sguardo lucido sulle miserie umane e amabile capacità di trasferire semplicità e bellezza sulla scena.
Ed é così che, mentre l’intreccio spionistico s’infittisce con il suo repertorio di colpi scena, può andare in onda un ameno valtzer di Strauss e sorridiamo del vecchio impiccione che, al banco del bar dell’Hotel, fa una specie di terzo grado al nostro imbarazzato Jesper, avvolgendolo in nuvole di fumo e sbruciacchiandolo col suo sigaro. Immergere lo spettatore in un fosco scenario di guerra decidendo ad un tratto, con Max Steiner, autore delle musiche e grande viennese anche lui, di ricostruire uno squarcio dell’ Old Vienna nel bar dell’Hotel e nel pieno dell’azione è tocco geniale. Nessun colore manca alla sua tavolozza, la sapienza nel dosare i toni permette a Lang di parlare di un mondo folle, in cui la sopravvivenza stessa della specie umana é a rischio, senza dimenticare di filmare il piccolo particolare che illumina la scena, collante di un passaggio impervio del montaggio, misura della vita reale che scorre accanto alle vicende romanzesche.
E’ la voce di Beniamino Gigli, prestata ad un cantante di strada, che intona “Vieni sul mar”, una famosa romanza per stendere un italianissimo tappeto sonoro alla scena del duello nel sottoscala, piccolo gioiello di ipercinetismo cinematografico in pochi metri quadri, con Jesper messo alle corde dal feroce giannizzero (Marc Lawrence, uno dei più cattivi fra i villain del cinema hollywoodiano) con mosse di karate, dita che si conficcano nella pelle, uno scontro violento e silenzioso che ricorda il magnifico duello finale dell’Angelo ubriaco di Kurosawa. Una palla rotola giù dalle scale, un bambino arriverà a raccoglierla, bisogna mimetizzare il cadavere del fascista in pochi secondi e sarà così che il bambino vedrà un uomo seduto a leggere il giornale mentre il “lungo” americano sembra appoggiarsi a lui.
Miracoli del cinema nelle mani di un grande Maestro.