Tra i film della regista giapponese, Nanayo appare come il più accessibile ma è comunque un film di straordinaria forza. Kyoko Hasegawa è Saiko, una donna che si trasferisce in Tahilandia dopo aver lasciato il Giappone per motivi affettivi; arrivata alla stazione di Hua Lampong sale a bordo di un Taxi segnalando all’autista l’Hotel dove ha prenotato il suo soggiorno; l’impossibilità di comunicare in una lingua comune le fa credere di essere stata rapita; si ritrova in mezzo alla foresta di un paese straniero in uno strano e inquietante risveglio; in realtà è ai margini di Bangkok, in una famiglia-comunità che vive fuori dalle sollecitazioni della città secondo gli insegnamenti Buddisti. Il viaggio di Saiko è sin dall’inizio una penetrazione fisica e mentale in una cultura estranea che si manifesta ora ostile, ora avvolgente come se fosse esaminata attraverso la complessità di più sguardi soggettivi. Naomi Kawase è tra i pochi cineasti capaci di filmare la pioggia, il vento e la potenza amorale della natura riuscendo a drammatizzare l’apparentemente inerte, gli interstizi, i riflessi e le increspature delle immagini. Nanayo nasconde una complessità temporale e narrativa all’interno di un involucro più tradizionale rispetto alla produzione precedente della regista giapponese, è il film di uno dei registi più interessanti degli ultimi anni considerando la relazione ormai “normativa” tra finzione e realtà documentata nell’immaginario contemporaneo . L’apparente sbilanciamento del film verso le regole della finzione conferma ancora una volta il talento di un autore che si serve della realtà non come di un grimaldello ma come di una materia capace di rivelare ciò che l’occhio non vede.
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