Programmato anche all’edizione n. 28 del Torino Film Festival, l’ultimo film di Peter Mullan è uscito in DVD per il mercato inglese lo scorso 23 maggio. A otto anni di distanza da Magdalene il regista scozzese torna a scrutare l’origine della violenza famigliare come una delle radici della sua stessa formazione, tanto che Neds è probabilmente il suo film più autobiografico soprattutto nel porre al centro il controverso rapporto tra John McGill (Conor McCarron) e il padre alcolizzato, interpretato dallo stesso Mullan. La Glasgow dei primi ’70 viene filmata attraverso le contraddizioni di una comunità apparentemente protetta dall’interno dalla cultura cattolica e attraversata inesorabilmente da un crescendo di violenza che dall’inerzia dei padri muta lentamente nelle azioni dei figli. Il destino di John, studente modello, viene in qualche modo tracciato non solo dai segni indelebili di una famiglia alla deriva, ma anche da un ambiente educativo (la scuola, la chiesa) che ne amplifica i desideri più osceni e il tribalismo più acceso in un’immagine di quell’oscuro visibile che a tratti sembra ispirata dalle pagine di William Golding, scrittore britannico con un percorso quasi opposto a quello di Mullan, ma che ha indagato le origini antropologiche della violenza in contesti comunitari chiusi in molti dei suoi romanzi. Quello che sembra mancare al regista scozzese è la capacità di bilanciare in modo convincente una scrittura vicina al realismo della tradizione “Free” con una serie di incursioni visionarie che tendono ad evidenziare tutti i limiti di un cinema che non riesce a farsi epopea antropologica, rimanendo ancorato a suggestioni forzatamente poetiche. I rari casi in cui Neds esce da questa concezione intima e troppo privata del punto di vista, sono tutte le sequenze dove John si confronta con il padre, dove la violenza più brutale esplode dal nulla come se fosse un tentativo disperato di colmare il vuoto di segni e di linguaggio; Mullan in questi casi lavora per sottrazione in modo abilissimo, rinunciando all’alibi logico-narrativo e raggiungendo livelli di astrazione con molta naturalezza; un’assenza che riesce a riproporre nella parte centrale del film, dove il progressivo autismo di John è filmato come in un limbo, in uno spazio sospeso dove il vuoto e l’orrore diventano “visibili” sul volto del ragazzo. Al contrario, tutte queste intuizioni vengono neutralizzate da un grottesco allegorico che appiccica immagini come fossero una pezza poetica sulla vita e sul sangue che scorre.