Sadie Thompson è un nome che non passa inosservato in quel di Hollywood. Diverse dive si sono cimentate con il personaggio nato dalla penna dello scrittore e commediografo britannico William Somerset Maugham: da Gloria Swanson (Sadie Thompson, 1928 di Raoul Walsh), a Joan Crawford (Rain, 1932 di Lewis Milestone); da Francine Everett (nell’adattamento apocrifo A dirty Gertie from Harlem U.S.A, 1946, di Spencer Williams) fino a Rita Hayworth che, diretta da Curtis Bernhardt, ha ulteriormente arricchito, con un’interpretazione formidabile e di grande finezza, la sua galleria di donne mozzafiato contese dagli uomini. Scritto nel 1921, il testo – dapprima intitolato Miss Thompson (1921) e poi ribattezzato Rain – una volta adattato per le scene di Broadway ottenne un rapido successo e di lì a poco i produttori hollywoodiani fiutarono il potenziale successo della pièce. La vicenda si svolge durante la seconda guerra mondiale: Miss Thompson, lasciata Honolulu e diretta in Australia, è costretta ad un breve scalo trasformatosi poi, per problemi tecnici, in una prolungata sosta. Si ritrova così su un’isoletta del Pacifico meridionale affollata di indigeni, ma specialmente di soldati che, da lungo tempo in astinenza da bionde maggiorate, non le daranno tregua in fatto di “attenzioni”. Insieme a lei, però, è sbarcato anche il figlio di un ricco missionario protestante, Mr. Alfred Davidson (Jose Ferrer), moralizzatore asfissiante e fustigatore inflessibile di costumi (in modo particolare di quelli “facili”) non conformi a quelli imposti dal suo credo. A costui non va giù che la donna infiammi le fumose bettole isolane con la sue esibizioni canore, i suoi provocanti passi di danza, la sua esuberanza e la sua primigenia carica erotica. Mentre il sergente O’Hara (Aldo Ray) insidia sempre più d’appresso il cuore di Miss Thompson, Davidson inizia a perseguitarla: formalmente per redimerla, in verità perché mosso da una torbida attrazione.
Nel ’28, quando la Swanson decise di produrre il film e interpretare Sadie Thompson, la MPPDA, capitanata dal repubblicano Will H. Hays, aveva già da tempo disegnato – prima che entrasse in vigore il Production Code – un piano per riabilitare l’immagine di Hollywood agli occhi dell’opinione pubblica a seguito degli scandali in cui furono coinvolti diversi attori e registi tra il ’20 e il ’23. Sia Walsh che la Swanson dovettero quindi fare i conti con alcune “clausole morali” che erano state inserite nei contratti degli studios e ne conseguì che il finale cupo pensato da Maugham fu ammorbidito e il personaggio di Davidson (David son, dice niente?) modificato da pastore a semplice bacchettone attempato. Venticinque anni più tardi, il Codice Hays era già perfettamente collaudato e le sue linee guida, nel frattempo inasprite, lasciavano ben poco margine a compromessi su un copione controverso che denunciava le perversioni soggiacenti allo spirito puritano: a Bernhardt toccò compiere ulteriori cambiamenti rispetto alla pellicola del ’28, trasformando anche il personaggio di Sadie Thompson che, originariamente una prostituta, divenne infine una ballerina di nightclub dal passato equivoco. Pur limando particolari importanti, nel suo complesso il messaggio che la storia intende veicolare non appare, tuttavia, stravolto.
Nel contraddittorio fra il dottor MacPhail (Russell Collins) e Mr. Davidson si rinvengono a più riprese tracce di un dibattito culturale piuttosto accesso negli anni ’50: quello fra il relativismo delle teorie psicanalitiche e l’assolutismo della morale religiosa (nel 1950 era uscito Psicanalisi e Religione di Erich Fromm) e dunque fra un’idea di uomo in vacillante equilibrio sulla fune fra Io e Inconscio contrapposta a quella fondata sul binomio peccato/redenzione. Si noti a questo proposito la scena in cui Davidson, dopo aver inveito contro Freud, Adler e Jung, definisce il male come un fatto incontrovertibile piuttosto che un’opinione soggettiva da mettere al vaglio della dialettica. A questo proposito, per non perdere alcune importanti sfumature (come il passaggio da “Mr.” a “reverendo” Davidson – licenza del doppiaggio italiano) e contestualmente risparmiarsi i birignao di Tina Lattanzi (col suo timbro austero e tagliente, inadeguata per la Hayworth) è consigliabile ricorrere all’audio originale, dato che il dvd CG ne dà la possibilità. La regia di Bernhardt è sobria, professionale, al servizio degli attori: la Hayworth, in gran spolvero, coglie i tratti chiave di Miss Sadie Thompson e la rappresenta come una donna briosa, dai modi spicci e dall’anima da maschiaccio, che, nonostante le delusioni e gli errori del passato, tiene alta con fierezza la bandiera della dignità. I paesaggi esotici sono messi in risalto da un pregevole Technicolor che non esaspera le tonalità, e gli immancabili stacchi musicali della Hayworth sono quanto di meglio l’attrice abbia offerto nella sua carriera: rimangono impresse la scatenata The heat is on e la languida e suadente Blue Pacific blues. Fra gli altri attori, spicca la notevole interpretazione di Aldo Ray, qui in una delle sue prove più convincenti. Si può infine riconoscere un trentenne e ipertrofico Charles Bronson nel ruolo di un duro fumantino, in uno dei suoi numerosi ruoli minori prima di essere lanciato da John Sturges ne I magnifici sette (1960).