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Plein Sud di Sébastien Lifshitz: la recensione

La rabbia giovane di quattro ragazzi che attraversano la campagna francese e i colori del sud, in un viaggio senza meta che si trasforma nell’ossessiva ricerca di una rigenerazione. Sam, sguardo tormentato e volto imbronciato, sfreccia con la sua Ford, ospitando la bella Léa e suo fratello Mathieux, omosessuale fragile e spaventato. Mentre i due fratelli, senza infrangere il loro sodalizio, tentano entrambi di sedurre Sam, a loro si unisce Jérémie, giovanotto raccolto da Léa in un supermercato e fatto salire a bordo. Comincia così, con un viaggio privo di radici, di cui non si conoscono la destinazione e lo scopo, “Plein Sud” (uscito in Francia nel 2009) del regista e scenografo Sébastien Lifshitz, acclamata presenza festivaliera (a Cannes con il documentario La Traversée, a Berlino con Wilde Side) che torna a esplorare tematiche legate a omosessualità e desideri repressi. Poco importa perché tutti e quattro si ritrovino insieme: lo sguardo si posa fin da subito sulle complesse e mobili dinamiche che si instaurano fra i protagonisti, nel continuo sfilacciarsi e riallacciarsi di un legame perennemente in bilico dove ciascuno, a turno, fugge e ritorna, alterando umori e toni dei tre compagni. Stanca delle scarse attenzioni che le riserva il tenebroso Sam, Léa si concede al vitale Jérémie, che persuade il gruppo a una sosta lungo la costa in compagnia dei suoi amici e propone alla ragazza, nel frattempo rimasta incinta, di restare con lui. Mathieux si innamora di Sam, ma resta muto di fronte alle sue innumerevoli aggressioni verbali, sospeso fra la tentazione di andarsene e il desiderio di rimanere. Nella luce dorata della Francia del sud, Lifshitz accarezza i corpi dei suoi giovani attori, girovaghi poveri ma belli, che occupano la scena in una serie di primi piani e giochi di sguardi. In una storia intimista, in cui la fine potrebbe scambiarsi per l’inizio e tutti sono alla ricerca di qualcosa (un rifugio, un riconoscimento, un amore), emerge a poco a poco la vicenda personale di Sam, che nasconde sotto un coltre di silenzio il dolore per un trauma che lo perseguita fin dall’infanzia. Flash memoriali interrompono il tempo presente (nella parte della nonna c’è Micheline Presle, la Marthe del classico “Il diavolo in corpo”), punteggiando la corsa di Sam e obbligandolo a mettersi sulle tracce della madre, da sei mesi uscita dalla clinica psichiatrica in cui per anni era stata sepolta e trasferitasi in una cittadina spagnola. A dargli coraggio c’è la pistola del padre, ben nascosta fra i bagagli, ma la tensione drammatica è subito disinnescata, a vantaggio di una pellicola in cui a emergere sono piuttosto i sentimenti, le angosce e i baci rubati dei quattro protagonisti.

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