Gran Premio della Giuria al Sundance 2015, opera prima di John Maclean, giovane regista e musicista scozzese, Slow West è un’immersione nel Colorado di fine ‘800 sulle orme di Jay Cavendish (Kodi Smit-McPhee), sognatore sedicenne pieno di ideali ma poco attrezzato per sopravvivere al loro crollo e di Silas Sellek (Michael Fassbender), bounty killer di poche parole e mozzicone di sigaro sempre in bocca, protettivo e beffardo, pistola fulminea e cuore che pulsa ancora sotto vari strati di cinismo.
Partito dalla Scozia alla ricerca della sua amata Rose Ross (Caren Pistorious), Jay cammina lento in sella ad un cavallo carico come un mulo. Il suo viso emerge dal buio di una notte stellata a enumerare costellazioni: Drago, Orione, Andromeda… Un bagliore, è la canna della sua pistola puntata per gioco verso il cielo… pum !
Slow West ci promette subito di essere una fiaba: “C’era una volta, nel 1870, un ragazzo che aveva viaggiato dai freddi Highlands scozzesi al cuore infuocato dell’America per trovare il suo amore. Si chiamava Jay, lei era Rose.”
E’ la voce di Silas, rude avventuriero fuorilegge che si offre di accompagnare il ragazzo, un po’ per soldi e un po’ per simpatia: “Mi muovevo verso Ovest quando m’imbattei in lui, in pieno territorio del Colorado. Una lepre in una tana di lupi, fortunata ad essere viva”.
Silas ci guida fin dalle prime scene: “Quel ragazzo era incredibile, vedeva le cose in modo diverso. Per lui eravamo nella terra della speranza e della buona volontà”.
Jay è l’incredibile ragazzo dalla faccia di angelo preraffaellita su un corpo esile e vulnerabile, vede le cose in modo diverso per quell’allure romantica che porta con sè in un posto dove le pistole devono essere sempre cariche, è fuori posto perchè di notte dà il nome alle stelle come la cosa più naturale da fare, nel profondo West.
Sull’antefatto i continui flashback della sua memoria bastano appena a far luce, il tessuto della trama perde spesso i connotati realistici perchè scopo di Slow West non è raccontare, ma piuttosto rendere visibile il percorso di formazione di Jay e Silas.
I due cavalli segnano il tempo lento di questo west no far e molto slow, spazio privo di coordinate geografiche, non c’è nè est nè ovest, solo un luogo in cui perdere la propria innocenza (Jay) o scoprire che “vivere non è solo sopravvivere” (Silas).
Un’osmosi di visioni del mondo s’innesca fra le due vite in una progressione costante verso l’esito finale, quando l’andante con moto scandito da una chitarra country cede alla batteria crepitante dello scontro a fuoco risolutivo. Una leggerezza inconsueta avvolge immagini di grande potenza espressiva e immediatezza iconografica, la loro violenza ha il realismo pittorico delle scene di morte, strazio e dolore affrescate nelle Chiese, tocca territori profondi immuni da raccapriccio e orrore. Resta solo il pensiero, silenzioso e assorto, sul male nel mondo.
Girato in Nuova Zelanda e sulle Highlands scozzesi, a tratti surreale, spesso complice un’ironia tendente all’umor nero, è un western insolito, “una visione europea del western statunitense” dice il regista. Slow West non vuol neppure essere un omaggio al genere, anche se, a voler rintracciare un padre celebre, il pensiero andrebbe a Sam Peckinpah e al suo sguardo critico sulla violenza.
Come Jay sia arrivato fin lì da solo, superando mari e terre sconosciute, non è dato sapere. Il perchè è affidato a pochi flash che, più che illuminare i fatti, dichiarano il suo amore disperato. Figlio di Lord e Lady Cavendish, quell’ amore adolescenziale per Ross, una figlia del popolo, ha scatenato uno scontro di classe finito in tragedia al di là delle reciproche intenzioni.
Lord Cavendish è morto cadendo a terra, spintonato dal padre proletario di Rose. Poco importa che il gentiluomo, richiamando all’ordine il figlio, avesse provocato tutta la compagnia con l’alterigia tipica del suo status sociale. Facendo un bel salto dalle pagine di Walter Scott ad un film di Peckinpah, padre e figlia, piuttosto che aspettare che una corda si stringa al loro collo, sono fuggiti e rispuntati in una prateria del West, colpiti da una taglia che ha messo sulla loro strada il classico mucchio di cacciatori di taglie.
E’ su questo crinale che s’inseriscono Silas, l’eroe della valle solitaria, e il piccolo lord scozzese senza paura. Banditi stereotipi e mitologie, le gesta dei due mettono in campo un approccio dichiaratamente controcorrente all’epopea del West. Non beffardo, alla Tarantino, è piuttosto vicino alle suggestioni di Meek’s Cutoff. Anche se Maclean predilige la chiave intimista, comune ai due film è la smitizzazione del sogno della frontiera, con pionieri che non hanno niente di eroico ma sono gente comune e sprovveduta, come tutti quelli che allora partivano per l’avventura del West, portandosi dietro miseria, speranza e tanta temerarietà.
Fedele allo stereotipo in modo così esibito da esorcizzarlo, arriva allora lo scontro a fuoco finale, l‘inevitabile e brutale la resa dei conti. Sul terreno la mdp conterà i cadaveri uno ad uno, Jay porterà a compimento il cammino di salvezza e sacrificio di sé e nuova vita e rinnovato amore nasceranno dal suo sangue. Il quadretto in chiusura, in linea con l’intento dichiarato dell’opera di spiazzare ribaltando canoni e linguaggi, esibisce con toni da soap opera l’after day. Maclean chiude così il cerchio di questo western eterodosso, che mette fuori gioco tutte le modalità canoniche di rappresentazione: “Ho preso quella violenza e l’ho analizzata da un rinnovato punto di vista”.
Il nuovo punto di vista è il suo precario equilibrio fra realtà e illusione, tra l’ipotesi che sia possibile una palingenesi globale e la realistica previsione che tutto continuerà sempre allo stesso modo. Le parole dell’ antropologo che Jay incontra nel suo peregrinare surreale (“In poco tempo questo mondo sarà il passato“) sembrano suggellare questo affresco che ha la disarmante naturalezza dei sogni e la scrupolosa esattezza della realtà. Ma se con brusco overturning l’antropologo si scoprirà essere un truffatore, quanto possiamo credere alle sue parole?