venerdì, Novembre 22, 2024

The Harvest di John McNaughton: la recensione

Sono dodici gli anni che separano l’ultimo film per il cinema diretto da John McNaughton da questo The Harvest, titolo presentato in anteprima al Chicago Film Festival nel 2013 e distribuito solo due anni dopo durante la scorsa primavera, con una diffusione limitata nelle sale statunitensi e una più capillare in versione Video on demand, a dispetto del formato scelto dal regista americano per girare: la pellicola 35mm.

Realizzato poco prima di The Visit, l’ultimo controverso film di M. Night Shyamalan, anticipa la stessa commistione tra fiaba e quel gotico americano che da Hitchcock passa per Charles Laughton (da cui, secondo noi, desume una sottilissima traccia biblica), Robert Aldrich arrivando infine agli anni ottanta, in particolare quelli dei racconti di formazione di Rob Rainer, da cui Mcnaughton si fa ispirare per le location, quasi una sovrapposizione tra Stand By Me e Misery.

A differenza di Shyamalan, Mcnaughton non punta a far emergere esplicitamente la cornice metavisiva per poi irriderla, ma come in tutto il suo cinema rimane dentro il racconto per espanderne confini e possibilità combinatorie, oltre alla consueta attenzione a quel rapporto tra corpo attoriale e ambiente, che dalla dimensione più direttamente antropologica passa sul piano pittorico, una delle ossessioni di Mcnaughton fin da Henry pioggia di sangue e probabilmente esplicitata nel suo film più “visuale”, il bellissimo Normal life.

Non si tratta di una composizione statica dell’inquadratura, ma di una dialettica mutante tra corpo e sfondo, improvvisazione e preparazione del set, che non perde mai di vista la libertà dello sguardo. Anche quando gli elementi che concorrono alla formazione del punto di vista sembrano rispondere ad una precisa estetica dell’immagine, il set viene letteralmente ricombinato e utilizzato secondo possibilità molteplici, con un approccio fortemente cormaniano, dove l’improvvisazione anche attoriale è uno degli elementi più sorprendenti tra quelli che caratterizzano il cinema del regista di Chicago.

I delitti di Henry, come l’attraversamento urbano del cacciatore di teste, vengono inseriti in un contesto più ampio che oltre al significato sociale sembra comporre una desolata rappresentazione pittorica del paesaggio. All’immagine politica di un contrasto socioeconomico flagrante, per certi versi molto vicino al Romero di Martin, Mcnaughton sovrappone una furia performativa che anima il quadro, inserendo l’orrore e la violenza in un’immagine che include entrambi.

Non è un caso che tra gli ultimi lavori filmati da Mcnaughton figuri un documentario dedicato all’arte di George Condo, il pittore amatissimo da Felix Guattari, lunga intervista che si trasforma progressivamente in esperimento video-pittorico in prevalenza analogico, quasi a stabilire una relazione diretta con quel realismo artificiale che nei primi anni ottanta definiva la pittura di Condo, tra classicismo e pop art, Disney e Picasso, nella rappresentazione di un’intera nazione osservata attraverso molteplici livelli identitari.

Alla difficoltà di Mcnaughton nel trovare le condizioni necessarie per realizzare in patria il cinema che desidera, si è sovrapposta negli anni la sfortuna e la disattenzione critica che i suoi film hanno dovuto scontare in alcuni paesi europei ad eccezione della Francia (le uniche copie di The Borrower reperibili in formato DVD per il mercato europeo sono francesi e spagnole), con l’aggravante italiana caratterizzata dalla boutade Morettiana su “Henry pioggia di Sangue” che ha generato un’ontologia critica grottesca, proprio perché intepretata letteralmente (contro o a favore), ad eccezione del lavoro svolto da Roberto De Gaetano nel suo volume “Nanni Moretti. Lo smarrimento del presente”, dove l’episodio di “Caro Diario” viene contestualizzato nella rappresentazione di quei codici linguistici inafferrabili, rappresentati per lo più dal mondo della comunicazione e rispetto ai quali Moretti ha elaborato un rifiuto molto preciso fuori e dentro i confini del suo cinema.

The Harvest ancora una volta rischia di creare un contrasto inaccettabile rispetto alla quadratura del cinema coevo, prima di tutto perché proviene da una prassi sempre più rara nel cinema americano attuale che è quella della marginalità.
Marginalità produttiva, ma anche politica, perché rispetto alle produzioni horror contemporanee, ormai invischiate in una retromania inoffensiva e senza uscita, Mcnaughton sembra guardare con un occhio alla furia iconoclasta di autori ormai dimenticati come Stuart Gordon e più indietro all’esasperazione di Herschell Gordon Lewis, ma allo stesso tempo ripulendone l’immaginario da qualsiasi eccesso gore, per avvicinarsi al nucleo più intimo dell’istituzione famigliare con l’onestà e il minimalismo di un vero e proprio cinema da camera.

I mostri normalissimi che lungo alcuni decenni hanno occupato la sua filmografia, in The Harvest assumono i volti di Katherine (Samantha Morton) e Richard (Michael Shannon) coppia con un figlio malato a carico, lei chirurgo lui rappresentante di farmaci. In una casa della campagna americana accudiscono il giovane Andy costretto su una sedia a rotelle e isolato dal mondo; una famiglia spezzata dal dolore, con una crisi matrimoniale in atto e la disperazione di dover assistere alla morte progressiva del figlio. Quando l’abitazione antistante verrà occupata dalla giovane Maryann (Natasha Calis), trasferitasi con i nonni (Peter Fonda, Leslie Lyles) in seguito alla morte dei genitori, tra i due adolescenti nascerà un’amicizia fortemente ostacolata dalla madre di Andy.

Per i primi quaranta minuti Mcnaughton elabora i toni di un melodramma famigliare in uno spazio quotidiano circoscritto che rimarrà lo stesso per tutto il film, sulla linea dei suoi lavori più cameristici e contratti come “Mad Dog and Glory“, commedia scritta da Richard Price e prodotta dallo stesso Price insieme a Martin Scorsese.

Su questo impianto vengono innestate continue derive del plot in una forma non dissimile da “Wild things“, ma senza perdere di vista la centralità emotiva del dramma, tanto da ritrovare quel contrasto umanissimo e perverso tra distorsione grottesca e tragico quotidiano che attraversava le sue opere più feroci. Da questo punto di vista Mcnaughton non rischia di invischiarsi in una dimensione freddamente narratologica, perché rileva sempre quel “punctum” tra i due stati, strappando un ghigno nei momenti più dolorosi, dove alla sospensione del dubbio si sostituisce quella stessa teatralizzazione del gesto, inscidibilmente verissimo e falso, che nell’osservazione allo specchio dei nostri sentimenti ci coglie improvvisamente mostruosi e così vicini alle ragioni di quell’orrore rappresentato.

Ed è proprio in questa dimensione eccessiva degli elementi in campo, improvvisamente schizzati fuori dalla cornice chiusa di un set famigliare e allo stesso tempo cormaniano (incendio incluso), che Mcnaughton riesce a raccontare l’accanimento terapeutico, l’ossessione di essere madri e padri, il dramma di essere figli ad immagine e somiglianza, il dolore personale come più rilevante di quello comunitario, la quotidianità dell’abuso fino al trapianto d’organi, ormai prepotentemente penetrati dentro il recinto della famiglia nucleare.

In numerose interviste Mcnaughton cita i lavori di Gregory Crewdson come ispirazione visuale per i colori del film e sopratutto per l’allestimento degli interni. L’iperrealismo fotografico dell’artista di Brooklyn, così attento a condensare in una sola immagine più livelli temporali perfettamente a fuoco, crea un contrasto molto simile a quello che il cinema di Mcnaughton ricerca da tempo, basta pensare alla luminosità di “Normal life” e alla corrispondenza di quel nitore con una società spossessata dai mezzi di consumo. I luoghi del quotidiano si spalancano improvvisamente sull’abisso, assorbendo una luce che ne rivela valori completamente inediti.

Mcnaughton ha raccontato a più riprese di essersi fatto influenzare dall’illuminazione degli interni che è presente nelle foto di Crewdson, ma sopratutto dalla presenza frequentissima dei segni sulla carta da parati. In The Harvest le pareti assumono un ruolo importantissimo in quella relazione tra corpo e sfondo di cui si parlava all’inizio, e se qui lo spazio non sembra muoversi come nelle peregrinazioni urbane di Michael Rooker o di Tom Towles, i colori si accordano con lo stato d’animo dei personaggi, come quelli lividi e marcescenti di alcuni angoli visivi, diretta emanazione della luce che arriva dal volto di Michael Shannon, morto tra i vivi.

The Harvest è un film terribile e affascinante come un dispositivo ad orologeria che improvvisamente inceppatosi, comincia ad uscire da tutti i parametri che sembrano impostarne le funzioni. Persino la musica scritta da George S. Clinton secondo indicazioni precise legate ad un approccio orchestrale più aderente ai toni del melodramma intimo, evidenzia la frizione tra esterno e interno, spezzando le aporie del set e trasmutando lo scenario di un quotidiano stupore infantile nel suo rovescio più inquietante.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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