Nel primo lungometraggio di Keith Thomas, quella con la tradizione è una relazione non riconciliata, ma la cesura è molto meno netta e più stratificata rispetto ai recenti racconti di formazione che hanno alimentato, soprattutto nell’universo seriale, la descrizione critica delle comunità ebraico-ortodosse.
Il regista statunitense sceglie il territorio a basso costo della Blumhouse per sperimentare una personale lettura “folk” di alcuni topoi horror, ricorrendo al giudaismo rabbinico come elemento sostitutivo rispetto alla centralità cristiana e di conseguenza, al di là del lungo filone neopagano che attraversa la storia del cinema anglofono, tornato al centro del discorso cinematografico di genere.
L’ortodossia viene rappresentata sin dall’inizio come una soglia difficile da attraversare, con un gruppo di ebrei newyorchesi raccolti intorno ad un tavolo, mentre si confrontano sui codici linguistici e comportamentali da assimilare, per sancire il ritorno alla normalità della vita collettiva e disintossicarsi da anni di rinunce sperimentate all’interno del mondo hassidico.
Del tutto espliciti i riferimenti all’attività di associazioni come Footsteps di cui l’attore protagonista Dave Davis è membro attivo, anche se Thomas non rivela immediatamente il contesto, ma ci immerge in medias res e individua gli effetti di un trauma interiore nei piccoli gesti minimi che rendono aliene un nucleo di persone, rispetto alla lingua corrente del mondo.
Alieno è anche Reb Shulem, l’ebreo ortodosso che pedina da qualche giorno Yakov, uno dei partecipanti al gruppo di auto-aiuto e che da quella prospettiva è considerato come una vera e propria minaccia alla libertà di scelta. Non è casuale che Thomas abbia affidato la parte di Shulem a Menashe Lustig, già al centro del quasi omonimo film diretto da Joshua Z. Weinstein e sviluppato a partire dalla vita vissuta del protagonista, come membro attivo della comunità hassidica di Borough Park a Brooklyn.
I contrasti che Menashe ha vissuto dall’interno rispetto all’influenza della vita comunitaria su quella individuale, vengono radicalizzati con il personaggio di Yakov, ormai fuori dal contesto religioso, ma ancora disposto a tendere una mano nella prospettiva del dialogo. Ciò che Reb Shulem chiede al riluttante ex membro della comunità è di svolgere un compito come Shomer sakhar, recitando i salmi nella camera mortuaria di un anziano sopravvissuto alla Shoà fino al giorno della sepoltura, affinché l’anima del defunto effettui il passaggio senza esser minacciata dal regno dell’oscurità.
Ad attendere Yakov, oltre alla moglie del deceduto malata di Alzheimer, il mazzik, demone ebraico.
Citato pochissime volte nelle fonti talmudiche, non ha niente a che fare con il dybbuk e con altre creature oltremondane della tradizione di riferimento, già parte dell’immaginario cinematografico.
Rispetto al dybbuk, per esempio, non è un’anima maligna dislocata dal proprio corpo, che cerca nuove strade attraverso la possessione, ma uno spirito vitale senza alcuna anima, uno scarto della creazione, energia potenziale che si inocula negli eventi traumatici degli individui e che infesta principalmente le case. Né bene, né male, può rivelarsi pericoloso come un parassita perché il principale nutrimento da cui trae forza è proprio l’irresolutezza dei ricordi.
Già dall’inizio Thomas definisce un territorio di transito, che come vedremo non verrà attraversato in una sola direzione, lasciando aperti numerosi interrogativi sul senso di colpa, la pervasività del male, la persistenza ambivalente e spesso minacciosa della memoria, l’espiazione e l’elaborazione del lutto, come condizione individuale e collettiva, tutti temi centrali nella storia di molto cinema horror, ma anche in quella della comunità ebraica.
In questa efficace sovrapposizione, il regista statunitense sfrutta gli elementi più tipici di alcune produzioni Blumhouse, per depotenziare ogni reazione causale e giocarsi tutto sulla dilatazione di un mondo dentro l’altro. La casa è quindi luogo di memorie mai rivelate sino in fondo, pronte ad esser riattivate per aprirsi come una voragine spalancata sotto la realtà.
Il riferimento più esplicito è assegnato all’iterazione di un frammento mnestico: gli ebrei forzati a diventare strumento della barbarie nazista. Da quel trauma, promanano numerose possibilità, volutamente collocate fuori fuoco da Thomas e aperte ad altrettante connessioni, inclusa quella tra peso del ricordo e fuga nell’oblio dell’Alzheimer. Uno scarto che la moglie del defunto definisce con precisione, delimitando la qualità fallace della memoria e il modo in cui può distruggere un’intera vita se gli si dà sostanza.
Un territorio stimolante, anche in termini teorici e che in qualche modo oppone il ruolo dei sonderkommando, traghettatori coatti di morte, al compito che lo shomer a pagamento dovrebbe svolgere tra le pareti della casa. Due diversi accompagnamenti verso la morte; il primo immerso nelle tenebre, il secondo alla ricerca di una sorgente di vita. L’individuazione della luce spetta quindi ad un fuoriuscito dalla comunità ortodossa, che sta disimparando la prassi quotidiana della preghiera e che durante il suo compito sarà distratto dalle apparenti connessioni con il mondo esterno a quel ventre, attraverso la messaggistica dello smartphone. Il mazzik si nutre quindi dei ricordi più oscuri per modificare la morfologia dell’appartamento e mettere in dubbio la percezione di Yakov.
Keith Thomas sceglie una via ottica e “pratica”, in una direzione molto più artigianale rispetto a quella che intraprenderà nel successivo Firestarter, grazie anche alla tetra fotografia di Zach Kuperstein che immerge il film in un’ipovisione dai contorni incerti. Ed è proprio il passaggio dal formato anamorfico alle lenti Kowa utilizzate per filmare la casa, a dare al film una connotazione specifica. L’alterazione dello stato di vigilanza viene elaborata attraverso una dimensione eminentemente focale, con i margini del fotogramma sottoposti ad una forte distorsione e in alcuni casi generando veri e propri sdoppiamenti ottici.
Una scelta che favorisce la lenta corrosione degli stati di coscienza, attività e unità dell’io. Thomas declina in questo senso il tema del doppio come un raddoppiamento del senso di colpa. Il primo esperito dal defunto, che ha generato un’immersione totale nella simbologia hassidica, il secondo, legato all’esperienza di Yakov con altre forme contemporanee di antisemitismo e il cui risultato è la totale cesura con quel mondo sacro.
Tra queste due polarità, Thomas lascia inalterato il valore non discorsivo ed eccedente dei simboli rispetto a qualsiasi enunciazione. Lo fa quando non si affida ai sottotitoli per le preghiere in ebraico, oppure introducendo il tefillin come se fosse uno strumento di battaglia per difendersi dal male, occupando un campo semiotico riconoscibilissimo eppure mantenendo tutta l’aura di inaccessibilità del simbolo. Pia illusione oppure tentativo ardito di inoculare gli elementi della tradizione in una realtà mediale frammentata. Sicuramente la dilatazione dello spaziotempo visuale e drammaturgico procede in una direzione opposta rispetto al ricorso truffaldino dello spavento come trappola per lo spettatore, che ancora determina buona parte delle produzioni horror dopate per questioni di architettura sonora e di lessico ritmico-narrativo.
Poco importa allora se quella stessa connotazione ottica di cui parlavamo, conduce il film dalla parte di un immaginario fuori tempo, già ricodificato in svariate occasioni e che trova le sue origini nel cinema di genere tra i sessanta e i settanta, incluso il corridoio di Repulsion.
La piccola ricerca di Keith Thomas cominciata con The Vigil e in parte confermata da Firestarter, si spera proceda in questa direzione ottica e prostetica, per raccontare lo scarto tra visibile e invisibile, tangibile e psichico, proprio entro il recinto della realtà ricombinata dalle intelligenze artificiali.
Nella sua personale avventura con la morte, Yakov sceglie una conciliazione non escatologica, individuando proprio nel passaggio la liberazione da ogni regola, vincolo e bolla di riferimento.
The Vigil – Non ti lascerà andare di Keith Thomas (The Vigil – USA 2019 – 89 min)
Sceneggiatura: Keith Thomas
Interpreti: Dave Davis, Menashe Lustig, Malky Goldman, Fred Melamed, Lynn Cohen, Ronald Cohen, Nati Rabinowitz, Moshe Lobel, Lea Kalisch, Efraim Miller
Musiche: Michael Yezerski
Fotografia: Zach Kuperstein