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Umberto D. di Vittorio De Sica (versione restaurata): la recensione del DVD Mustang Entertainment

L’ultimo capolavoro del neorelismo italiano, Umberto D. di Vittorio De Sica,  si presenta in una nuova confezione di alta qualità visiva nel restauro in 4K ad opera del CSC – Cineteca Nazionale in collaborazione con Cineteca di Bologna e Associazione Vittorio De Sica, con il contributo di RTI E BNL e il sostegno straordinario di MiBACT – Direzione Generale per il Cinema, dopo l’anteprima di questa stessa versione a Venezia 71 nella sezione Venezia Classici (leggi la recensione)

Il restauro, effettuato a partire dai negativi originali nitrato, ha richiesto l’integrazione di sezioni da due controtipi safety dato l’avanzato stato di decadimento dei rulli, anche questi scansionati in 4K.

Nessuna storia d’amore, nessun colpo di scena, nessuna denuncia sociale urlata ad alta voce. Piuttosto un tono dimesso, sussurato, crepuscolare. Una messa in scena sobria, dignitosa, composta e uno sguardo partecipe ma non pietistico, non patetico sulla dignità e insieme sulla terribilità della condizione umana. Sono queste le doti che oggi, a tanti anni di distanza, fanno di Umberto D di Vittorio De Sica uno dei capolavori indiscussi non solo del cinema italiano ma del cinema tout court“.
Parola di Gianni Canova che, come stimato critico cinematografico e professore di Storia del cinema e Filmologia presso l’Università IULM di Milano, ci introduce nel contenuto extra “Un vecchio e un cane” nel mondo emotivo e stilistico del film.

Nove minuti di profonda chiarezza critica ci avvicinano alla poetica di Umberto D., alla volontà sia di De Sica che di Cesare Zavattini (sceneggiatore) nel porre sullo schermo quello che è l’ultimo frammento dell’animo neorealista, teso a designare l’uomo nella sua pura identità con il genuino impulso di dare ampio contribuito alla verità di un essere umano.

Come ci ricorda Canova, questo accade nel gennaio 1952, in un momento storico in cui l’Italia è tra le protagoniste della fase di ricostruzione post-bellica e divulgare ottimismo è la prima spinta che lo Stato promuove.
In questo clima, e senza dimenticare la pesante incursione nelle sale del divismo di una Hollywood dorata, si pone controcorrente la pellicola di De Sica, pronta a dar spazio a quella voce più concreta nelle radici della realtà popolare ove la povertà e la strenua sopravvivenza sono ancora tragicamente presenti sul suolo italico. Un difficile vissuto che fa i conti anche con lo spettro di una nuova guerra data dalla scoperta della bomba H per mano dei russi, allorchè la possibilità di un conflitto nucleare si pone con evidenza.
Queste dinamiche hanno portato la pellicola ad essere inizialmente accolta con notevole freddezza se non addirittura una certa misura di ostilità.

 Giulio Andreotti, all’epoca sottosegretario alla cultura, dichiara: “De Sica ha voluto dipingere una piaga sociale e l’ha fatto con valente maestria, ma nulla ci mostra nel film che dia quel minimo di insegnamento[…] E se è vero che il male si può combattere anche mettendone a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti – erroneamente – a ritenere che quella di De Sica è l’Italia del ventesimo secolo, De Sica avrà reso un pessimo servigio alla sua patria“.

Parole che sottolineano apertamente l’aria che si respira attorno a quello che, solo successivamente, verrà considerato uno dei massimi capolavori della cinematografia.

Opinione del professor Canova che non manchiamo di sottolineare e condividere è l’assoluta intenzione degli autori di raccontare l’economia della solitudine e la sua tragedia: Umberto D. è un uomo solo in una città che non sembra avere sguardi per lui, una città che fa il deserto delle relazioni umane. Una Roma cinica e feroce in cui l’uomo sceglie, nelle avversità, di non sottostare nello sguardo ponendosi al suo mondo contorto con una maschera di rispettabilità e dignitosa rassegnazione posta anche negli abiti (la cravatta, il cappello) che il personaggio sfoggia con ogni decoro possibile.

Una funzione drammaturgica che si avvale del volto di Carlo Battisti, attore non professionista come tradizione per la corrente neorealista, e che riesce nelle inquadrature sempre più ravvicinate (i primi piani divengono arma pregnante nell’avvicinarsi alla conclusione) ad evidenziare il dolore di un uomo alla deriva, spezzato dall’indifferenza che lo circonda. Una cocente apatia che solo gli occhi di una povera ragazza, anch’essa vinta dall’esistenza, riescono ad evadere: servetta dello stabile in cui Umberto ha una stanza in affitto, Maria (Maria Pia Casilio) è l’unica persona che lo guarda negli occhi e si preoccupa per lui, capace di ascoltarlo e capire la sua sofferenza. Un rapporto che allieva le pene ma non può saturarle.

In questo contesto incentrato sull’uomo, il crollo delle relazioni e di una pregnante umanizzazione delle stesse, l’elemento portante che scardina l’essenza narrativa è il cagnolino del protagonista, compagno di vita e fedele amico per il quale Umberto non riesce, malgrado notevoli sforzi, a concedersi all’abbandono fino all’ultimo tragico atto. Un dramma che si dipinge di nuova speranza proprio grazie all’aiuto dell’alleato più autentico, capace di porre in scena l’insorgenza di una morale ed un’etica che portano nello sconforto la pura linfa di una nuova luce dedita al futuro.

“Sono stato un’ora e mezza con un uomo solo con il suo cane, e non mi sono sentito solo”.
Umberto Eco

 

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