Wes Craven gira Deadly Blessing tre anni dopo Stranger in Our House, una produzione realizzata per la televisione e interpretata da Linda Blair appena reduce dal secondo Esorcista diretto da John Boorman. Scritto a quattro mani con Glenn M. Benest, che adatta un romanzo di Lois A. Duncan, Stranger in Our House prepara in un certo senso il terreno al film successivo, tanto che Craven si porta dietro Benest per lavorare alla sceneggiatura insieme a Matthew Barr. I due dopo questa esperienza non scriveranno molto altro. Il contesto di Deadly Blessing avrebbe dovuto essere quindi sempre quello televisivo, ma le intenzioni di Craven di spingere molto di più sulle allusioni simboliche e sessuali fa si che il film tenti la strada della distribuzione in sala, pur mantenendo alcuni elementi occulti entro un’atmosfera famigliare non così distante da quella del titolo precedente, una sovrapposizione perturbante che oltre a gettare le basi per un setting tra i preferiti del regista di Cleveland (le famiglie e le case di Invito all’inferno, Nightmare, Dovevi essere morta, La casa Nera) anticipa quei continui slittamenti di senso che diventeranno l’ossessione di un autore che ha sempre messo in discussione l’essenza stessa del suo cinema, rivelandone doppi fondi, improvvisi deturnamenti e disfacendolo continuamente proprio a partire dai suoi elementi più mainstream.
Siamo lontani dallo slasher lurido e malato di “The Last House on the Left” e “Hills Have Eyes” grazie anche alla fotografia di Robert Jessup, un veterano delle produzioni televisive, reduce dalla direzione della fotografia per le prime serie di Dallas e Hazzard, che insieme a Craven filma l’estensione rurale di Waxahachie in Texas accentuando quella patina sfumata e sognante che attraversa molti telefilm della fine degli anni settanta e di fatto finendo per rendere incollocabili e astratte molte delle location del film, che avrebbero dovuto simulare un villaggio nel cuore della Pennsylvania.
A conferma di questa tendenza sottile che consente al film di rimanere in uno strano equilibrio tra familiarità ed estraneità, l’idea di sviluppare il racconto intorno ad una setta religiosa molto simile agli Amish per abbigliamento e regole di comportamento, aderente alla comunità degli “ittiti”, via di mezzo immaginaria tra gli Hittiti citati dalla Bibbia che abitavano le terre di Canaan quando ci entrò Abramo e le comunità anabattiste hutterite.
Lisa Hartman, che tra il 77 e il 78 poco più che ventenne aveva interpretato la sitcom Tabitha, spin-off del notissimo Bewitched (Vita da Strega) apre il film nella parte di Faith, mentre è intenta a dipingere un quadro di ambientazione in mezzo ad un campo, quando un “ittita” dal volto deforme la assalirà additandola come “incubus”, un demone di origini antiche che sfrutta il sonno delle donne per approfittarne sessualmente.
L’ittita molesto è Michael Berryman, icona horror in divenire, già nota al pubblico degli appassionati per l’interpretazione di Pluto ne “Le colline hanno gli occhi” dello stesso Craven; ci penserà Jim (Douglas Barr) a calmare i bollori dell’invasato, tranquillizzando Faith e la madre (Lois Nettleton, altro nome preso in prestito dall’ambiente televisivo), giunta allarmata sul posto. È un’introduzione che sovrappone immediatamente ad un contesto presentato come idilliaco un rapporto di forze che ruota intorno alla comunità; Faith e la madre hanno rinunciato a qualsiasi connessione con il fanatismo religioso, proprio per questo sono considerate pericolose dai ministri del culto, mentre Jim, un tempo membro della comunità e appena sposato con Martha, mantiene un rapporto di confidenza nonostante sia stato bandito dal nucleo proprio in seguito al suo matrimonio.
Martha, interpretata da Maren Jensen, attrice che concluderà la sua carriera cinematografica proprio con questo film di Craven e già nota al pubblico televisivo per la sua partecipazione nel serial “Battlestar Galactica”, è nell’occhio del ciclone, per Isaiah, il patriarca della comunità, padre di Jim e interpretato da uno straordinario Ernest Borgnine completamente sopra le righe, anche lei è l’incarnazione di “incubus”.
Il marito della ragazza morirà in circostanze misteriose durante una notte, e per alleviare il dolore del lutto, due amiche di Martha, Lana (una giovanissima Sharon Stone alla sua seconda prova cinematografica) e Vicky (Susan Buckner, altra meteora televisiva, reduce da una delle sue limitate apparizioni sul grande schermo, in Grease di Randal Kleiser) andranno a trovarla muovendosi dalla città.
Una struttura di partenza esile quella di Deadly Blessing, utile a introdurre tutti gli elementi buoni per sviluppare uno slasher, un thriller di ambientazione rurale, un horror di derivazione Lovecraftiana che Craven sfrutta come fossero esche per poi condurre il film continuamente altrove, in quella dimensione tra sogno e veglia che individua negli oggetti e negli elementi della casa alcuni passaggi dimensionali per allargare e in molti casi distruggere l’univocità del set come produttore di senso.
È lo stesso Craven che si riferirà a questo film come una prova generale per sperimentare alcune idee messe a punto nei titoli successivi, e non si tratta solo di sequenze recuperate, come quella del serpente che sbuca tra le gambe di Martha mentre sta facendo il bagno, reinventata nel primo Nightmare dove Heather Langenkamp in una posizione simile, vede emergere gli artigli di Freddy, ma di una scrittura che comincia a sfaldare il plot in una serie di derive che mettono continuamente in discussione il punto di vista.
Primo “portatore sano” di distruzione è proprio il personaggio interpretato da Sharon Stone, la cui psiche viene a poco a poco disintegrata dall’incapacità di distinguere la realtà dalla soggettività della visione, diventando essa stessa un ponte tra due mondi, in attesa che tutte le forme inconsce, sotterranee ed ignote sostituiscano completamente la percezione lineare dello spazio e del tempo. Un esempio tipico di questo procedimento, sono i “contenitori” dell’immagine che diventano improvvisamente contenuti, re-inquadrati come sono da un surplus di realtà che vanifica la precedente, un procedimento che diventa più chiaro nella sequenza conclusiva del primo Nightmare e sopratutto ne “Il serpente e l’arcobaleno” di cui Deadly Blessing anticipa l’atmosfera rituale è la distruzione della centralità dello spazio casalingo, qui fortemente persistente, come in Stranger in Our House, ma prossimo ad un imminente rovesciamento di tutte le certezze, con quella creatura demoniaca che a un certo punto perfora il sottosuolo per rivelarsi in superficie, cosi da mettere in comunicazione due mondi incongrui.
Se l’apparente semplicità delle situazioni fa apparire Deadly Blessing come un film ancora non del tutto convincente, apparentemente legato alla sua confezione mainstream di natura intrinsecamente televisiva, è perchè Craven ne decreta la messa a morte o la perversione dello stesso dispositivo di riferimento, come farà ancora più radicalmente nel secondo dei suoi film più ignorati, l’incredibile “Invitation to hell”, vero e proprio collasso di un set dentro l’altro.
Il Blu-Ray edito da Pulp video e distribuito da CG Home video, copre una lacuna per un film irreperibile in Italia da molto tempo e al di là di una buona resa dell’immagine, che non spinge troppo sulla definizione, mantenendo un buon rapporto di contrasti e conservando quell’aura sognante e sgranata ricreata dalla fotografia di Robert Jessup, non contiene nessun extra rilevante tranne un commento al film in lingua inglese curato dallo stesso Craven, che racconta alcuni aneddoti interessanti sulla lavorazione del film, ironizzando sul riutilizzo di alcune sequenze nella sua filmografia successiva, proprio a causa dell’insuccesso ottenuto da “Benedizione Mortale” quando uscì nelle sale.