Neil Blomkamp torna con un nuovo lungometraggio a sei anni di distanza da Humandroid, periodo in cui ha prodotto un buon numero di corti nel bacino creativo degli Oats Studios, la casa di produzione da lui fondata e con la quale ha messo a punto una notevole sperimentazione creativa nell’ambito degli effetti speciali. Demonic nasce quindi in seno allo stesso contesto, ma anche come reazione alla situazione di isolamento imposta dalla pandemia. Costretto ad abbandonare o a mettere in standby alcuni progetti in corso d’opera, il regista sudafricano si è concentrato su alcuni aspetti legati alla ricerca tecnica e in particolare quella della Volumetric Capture, un sistema di acquisizione dell’immagine che solo per assonanza ricorda il più noto Motion Capture.
I presupposti sono infatti completamente diversi, sia in termini tecnici, che estetici.
Ci basterà dire adesso che il sistema sviluppato dall’equipe di Blomkamp è stato utilizzato all’interno di un involucro narrativo sci-fi di natura immersiva, dove confluiscono elementi VR, suggestioni folk-horror e qualche ambizione psicoanalitica.
Non sono secondarie né semplici curiosità, le possibilità e quindi i limiti che “Volumetric Capture” comporta, perché tutti i difetti di un sistema complesso di cattura del movimento corporeo in tempo reale, vengono sfruttati da Blomkamp in una direzione creativa che in buona sostanza cerca di tradurre e di sintetizzare le numerose modalità in cui potrebbe essere esperita una realtà digitalmente consensuale, difetti di trasmissione inclusa.
Carly Spenser (Carly Pope) decide di tornare in contatto con la madre Angela (Nathalie Boltt) prigioniera di una riformulazione virtuale del proprio subconscio. Si tratta di una cura approntata dalla Therapol che isola i fantasmi di un mondo psichico entro i confini della realtà virtuale. Se a questo punto molta della critica si è riferita ai barocchismi di Tarsem Singh nel suo noto “The Cell”, la stessa non deve aver fatto i conti con la narrativa di Pat Cadigan, che alla fine degli anni ottanta con i suoi Mindplayers e Synners aveva già codificato la penetrazione del mondo virtuale, con modalità opposte a quelle della sensorete descritte da William Gibson. L’instabilità del mondo psichico che Cadigan racconta con una conoscenza approfondita della psicoanalisi, ma anche delle meditazione, Blomkamp cerca di tradurla proprio con la messa a punto di un sistema di produzione dell’immagine che in termini di sperimentazione digitale, somiglia ad un nuovo protocinema.
Le 260 camere installate su un complesso rig per catturare e renderizzare in tempo reale i movimenti di un corpo/attore collocato in uno spazio circoscritto, sfruttano un principio simile a quello delle tecniche di rilievo che consentono di acquisire dati metrici. Rispetto alla fotogrammetria però, l’acquisizione volumetrica deve farlo per 24 fotogrammi al secondo, catturando ogni elemento, dal movimento alle texture ai colori. Al di là dell’immensa quantità di dati da elaborare è la stabilità stessa del movimento ad essere complessa, tanto che l’immagine risulterà instabile, corrotta, assalita da glitch e da aberrazioni dello spettro colorimetrico.
Risulta chiaro quanto a Blomkamp interessi in questa fase, codificare il modo di vedere nella realtà virtuale come motore principale rispetto alle forme del racconto. La sua tecnica sembra tradurre in termini empirici le intuizioni del sottovalutato Otherlife. In quel caso, Ben C. Lucas, si immaginava una contrazione del tempo virtuale, sfruttando l’architettura reale di Perth e giocando con l’illusione ottica di una città che storicamente è innestata su confini selvaggi, nel tentativo di integrare la natura.
Anche nel film di Lucas ci si immagina una prigione della mente dove il virtuale, esattamente come il sogno della vita, può significare l’eternità concentrata in una goccia di collirio. Per Blomkamp questa prigione parte prima di tutto dall’occhio, negato oppure improvvisamente imploso.
Se l’attore che si muove davanti al rig dell’acquisizione volumetrica, si muove in uno spazio che non è dissimile da quello “vuoto” circondato dai green screen, gli ambienti che la tecnica gli consente di innestare, vengono realizzati a partire da session fotografiche di contesti reali, quasi a combinare la tecnica vol-cap con una forma di stop-motion avanzatissima e ricondotta verso parametri tridimensionali.
In Demonic tutto è “reale” e “virtuale” allo stesso tempo, tutto è dislocato e presente rispetto alle modalità percettive.
Ecco perché nel raccontare una relazione complessa con i dispositivi che è anche la direzione che stiamo inesorabilmente imboccando, Blomkamp si muove tra ferocia e distacco, evanescenza e presenza.
Interessante quindi che il regista innesti in questo percorso alla ricerca dei demoni interiori, una materia sovrasensibile legata alla storia cultuale di un paese, elaborando figure legate agli elementi della natura e al mondo animale. Non lascia infatti emergere i frammenti più pulp, lasciandoli ai margini dello stesso flusso psichico, come relitti di un cinema che non riesce più a scalfire l’immaginario.
Imperfetto, come la tecnologia che lo sottende, Demonic è una vera esperienza dello sguardo, che forse prova a interrogarsi sugli stessi limiti della visione virtuale.
Midnight Factory pubblica un’edizione limited in Blu Ray del film di Blomkamp. Il fatto che sia inedito in Italia è probabilmente l’unico elemento a favore del prodotto. Non sono presenti Extra aggiuntivi e l’unico elemento che giustificherebbe il bollino “limited edition” dovrebbe essere il Booklet curato da Pulici/Gomarasca, davvero al minimo sindacale e con informazioni reperibili già in rete.
Audio (Italiano/inglese) DTS 5.1 HD ottimo e preciso nella trasfomazione da visuale ad aurale del mondo psichico inventato da Blomkamp. Video Full HD su aspect ratio 16:9.