Finnico film: quindi uno si aspetta freddo boia, minimal design, telefonini Nokia, neve dappertutto. Quindi uno pensa alle favole nere (e avvinazzate) consegnateci dai fratelli Kaurismaki. Musta jää rispecchia la desolata landa proprio come ce la immaginiamo (design e derivati) ma non la popola dei laconici perdenti di Aki e Mika: tutto è freddo, pulito, ordinato. Anzi raffreddato, ripulito e riordinato da un Petri Kotwica dedito a una narrazione classica che conserva dei primi film (mai arrivati in Italia, ad esempio Homesick) solo qualche primo piano nervoso. Guizzi della camera. Di regia, non si direbbe.
Canovaccio: la splendida quarantenne Saara (Outi Mäenpää) è sposata col vile Leo (Martti Suosalo) che se la fa con la giovane Tuuli (Ria Kataja), sua studente di design nonché insegnante serale di judo. Leo è un playboy butterato incapace di restare monogamo e, va da sé, di dire la verità. Stavolta Saara subodora la tresca, individua la ragazza, la pedina, diventa sua allieva e sua (migliore!) amica sotto falso nome. Black Ice diventa così un gioco a tre zeppo di sotterfugi: da vittima incosciente, Saara diventa fulcro di tutto e carnefice consapevole, pianificatrice di una vendetta che le sfugge di mano, con effetti dirompenti.
A ben guardare, la trama non è da buttar via, in quanto mette il dito in molte piaghe umane, troppo umane, capaci di costruire partite a scacchi emotive e relazionali sempre nuove. Peccato che il comportamento dei personaggi sia a tratti poco plausibile e che la regia non colga alcuni spunti comici o, al contrario, tragici, peccando a volte di distrazione, altre volte di idiozia. Come quando Saara fa ubriacare Tuuli e le effettua un’ispezione vaginale mentre dorme – dovete sapere che Saara è ginecologa – il tutto per capire se la ragazza è incinta di suo marito o meno. Nel bel mezzo dell’operazione Tuuli si sveglia e invece dello sconcerto scatta un abbozzo di scena lesbo. Un ripiego nonsense che manda in pappa il delicato equilibrio tra le due donne, indubbio asse portante del film. A colpi di primissimi piani (no, bergmaniani proprio no) Kotwica cerca infatti di mettere a nudo due psicologie tutto sommato simili, al contempo combattive e fragilissime, che il dato anagrafico ha collocato in ruoli diversi nella vita di Leo.
Da segnalare almeno l’intensità degli sguardi e del confronto fisico tra Saara e Tuuli nel contesto “rituale” della palestra… e tutta la prima sequenza, in cui i due coniugi fanno l’amore dopodiché Leo saltella sul letto strimpellando un pezzo alla chitarra. I corpi della coppia vengono mostrati per ciò che sono, cioè a dire due pezzi di carne in interni con tanto di mobilio d’alto bordo, e si ha l’impressione che il film possa avvalersi di quel tocco di onestà & follia scandinava a cui ci hanno abituato Kaurismaki e Brent Hamer. Segue, invece, una storia di umana miseria – non in senso economico – che si segue senza fatica e non lascia traccia alcuna. Interiors incontra General Hospital.