Le ossessioni di Philip Roth sono il sesso, la vecchiaia, la malattia, la morte. Una lista analoga a quella della regista catalana Isabel Coixet, che esordì sotto l’egida di Almodovar per poi trasferirsi a Vancouver. I titoli dei suoi film parlano da soli: Troppo vecchio per morire giovane, Le cose che non ti ho mai detto, La mia vita senza me (dal romanzo di Nanci Kincaid), La vita segreta delle parole. Coixet è una narratrice affezionata alla lettera, con uno spiccato interesse per il rapporto tra giovinezza e malattia. Sulla carta, la persona più adatta per affrontare le cento densissime pagine dell’Animale morente, uno dei romanzi più sferzanti degli ultimi anni.
Detto, fatto. Elegy è la classica produzione indipendente attenta alle leggi del mercato e alle regole dell’attrazione di massa, a cominciare dalla presenza di due star come Ben Kingsley e Penélope Cruz. I quali, per carità, incarnano – verrebbe da dire: ricalcano – alla perfezione i due protagonisti, Kepesh e la studentessa Consuela Castillo. Kingsley è un professore del desiderio credibile, e colpisce una sua certa somiglianza con Philip Roth. Cruz, dal canto suo, è una Maya vestida (e desnuda, limitatamente alle zinne) ben poco glamorosa, che ricorda i suoi personaggi pesti di Tutto sua mia madre e Non ti muovere. La regista si concentra sui due caratteri e infonde pathos autentico nella loro storia, soprattutto nel personaggio di Kepesh, intellettuale “di professione”, marito e padre fallimentare, che rifiuta l’amore sincero di Consuela per paura: il terrore di essere abbandonato e di dover ammettere che la ragazza è molto di più di un’ossessione erotica. Quindi, come gli consiglia l’amico George O’Hearn (Dennis Hopper), sorpassa l’inevitabile e va oltre, lungo la consueta road to nowhere.