Frocio è la traduzione letterale di schwul. Schwul non è (più) un’offesa. Frocio lo è ancora. Schwul non lo è più da quando il movimento omosessuale tedesco decise di appropriarsi dell’aggettivo e di deturnarlo, svuotandolo della sua accezione omofobica e riempiendolo di un significato diametralmente opposto. L’orgoglio gay tedesco è un orgoglio schwul.
Rosa von Praunheim – al secolo Holger Mischwitzky, classe 1942 – fa cinema militante da quarant’anni. Il suo Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondern die Situation, in der er lebt (Non è l’omosessuale ad essere perverso, ma la situazione in cui vive), del 1970, strofinò il cerino della mobilitazione sociale e politica LGBITQ nella Repubblica Federale Tedesca, con l’acronimo che sta per lesbica, gay, bisessuale, intersessuale (ermafroditismo), trans, queer. Solo l’ultima di queste parole ha una valenza culturale e non identitaria. Per comodità, l’acronimo è spesso accorciato in LGBT. Tra le opere più recenti di Rosa ricordiamo l’esilarante cortometraggio Can I Be Your Bratwurst, Please? (1999), con la star del porno gay Jeff Stryker.
Tote Schwule, Lebende Lesben è il nuovo film di Rosa, un prodotto televisivo che assembla quindici anni di ricerche sul campo. L’idea iniziale era di girare dei ritratti di schwule Männer anziani che avevano vissuto la loro sessualità alla luce del sole, anche sotto il nazismo. Il progetto è rimasto fermo a lungo perché considerato “poco interessante”, nel frattempo gli intervistati sono tutti morti. In tempi recenti una produttrice della ZDF ha proposto a Rosa di completare il lavoro sotto il segno del contrasto: ecco allora che accanto ai froci morti hanno trovato posto le lesbiche vive, cioè a dire donne che vivono, nel qui e ora, la loro identità sessuale in maniera aperta e aproblematica. Il documentario presentato alla sezione Panorama è composto da sette segmenti: tre froci, quattro storie lesbiche.
La genesi “bricolage” del film è evidente, così come l’impostazione televisiva. Le sette parti potrebbero benissimo venire trasmesse separate. A fronte di una tenuta d’insieme pressoché nulla, Tote Schwule, Lebende Lesben trova la sua necessità nelle storie di vita che racconta. Come quella di un uomo che finì in più KZ (campi di concentramento) col triangolo rosa cucito addosso, ne uscì solo per entrare nell’esercito sul finire del conflitto e dovette scontare altri quattro anni di prigionia in Russia. Più fortunati gli altri due intervistati, un pianista col genio del travestitismo che passò la guerra ad allietare le truppe ed ebbe problemi di gattabuia soprattutto sotto la Repubblica Democratica, e il signor Becker, novant’anni al tempo dell’intervista, per il quale il dodicennio nazista fu un periodo niente male. Becker era un masochista patentato, con una sincera fascinazione per l’estetica ariana e muscolare del regime. Dopo essere stato l’amante di vari personaggi di spicco, finì anche lui al fronte e non potendo fare sesso si sfogava con i tatuaggi, una forma di dolore che lo appagava. Becker si mostra nudo, uomo-tattoo con il pene perso in un balocco elefantiaco provocato da iniezioni di paraffina nello scroto, fatte in quanto riteneva che l’età gli avesse eccessivamente atrofizzato i testicoli. Fotografo professionista, i suoi ultimi scatti lo ritraggono nonagenario e nature, seduto sulla sua collezione di dildo. Titolo: come può essere felice un frocio anziano.
Tutt’altro registro quello imposto dalle intervistate. Una manager della scena multikulti, una dj turca, una giornalista, un’attrice e comica televisiva, una coppia con un bambino ottenuto con mezzi naturali e il cui padre ha acconsentito a rinunciare al proprio ruolo. Il regista ha ammesso che trovare persone disposte ad affrontare l’obiettivo è stato molto difficile, per una forma di paura che permea e frena tuttora il milieu lesbico. In questo senso è sintomatico il caso di Anne Will, la Lilli Grueber tedesca, che ha fatto coming out nel novembre del 2007 mediante una breve intervista alla «Bild». Manuela Kay, redattrice di «L.mag», prima rivista lesbica tedesca, si è vista rifiutare per anni l’intervista, e critica ferocemente l’atteggiamento di Anne. In particolare, il fatto che abbia fatto coming out solo per mettere fine alle sempre più insistenti voci di corridoio, e che ancora oggi rifiuti ogni domanda inerente alla sua vita privata. Per Manuela questo è solo falso pudore. Comunicare senza filtri la propria identità sessuale è prima di tutto una questione di dignità e di credibilità.
Tanto è coerente, sobrio e credibile il film di Rosa von Praunheim, quanto è confuso, velleitario e inutile Otto; Or, Up With Dead People, di Bruce LaBruce, anch’esso presentato nella sezione Panorama. Justin Stewart aka Bruce LaBruce, canadese, nato nel 1964, è stato additato come l’Andy Warhol degli anni ’90 grazie a piccole produzioni softcore come No Skin Off My Ass (1991), Super 8 1/2 (1993) o Hustler White (1996). Nel 2004 ha realizzato il suo primo film berlinese, The Raspberry Reich, esilarante parodia frocia della RAF e della sottocultura sinistrorsa ancorata all’immaginario terroristico degli anni ’70 e ai libri di Ulrike Meinhof. Parodia sì, ma empatica. Con Otto, LaBruce ha confezionato un progetto furbetto, che frulla il ritorno di moda dei morti viventi con l’impatto visivo della Berlino underground, fatta di muri cadenti ricoperti di tag e luna park socialisti abbandonati. Il film narra di Otto, un ragazzo che crede di essere uno zombi e viene scritturato per un film gay (politico) sui morti viventi. Le torsioni del plot e le sue pretese “meta” risultano stucchevoli dopo dieci minuti, anche per via di una colonna sonora debordante che non sta zitta un attimo e butta via le Cocorosie e un intero brano di Antony & The Johnsons, The Atrocities. Per tacere dei dialoghi che triturano citazioni marxiste e invettive contro il capitalismo avanzato senza, tuttavia, dimostrare lo spirito ludico e la sottile ironia di The Raspberry Reich. Come dire: LaBruce crede davvero di fare un film politico sugli zombi gay, e crede davvero di citare e rielaborare sia l’umorismo della Famiglia Addams, sia le intuizioni di Romero. Come da clausola contrattuale, inoltre, il film è punteggiato di scene di sesso esplicito francamente gratuite e noiose, come un’orgia attutita da dissolvenze incrociate. Unico dettaglio simpatico, un personaggio femminile in bianco nero, di fatto un clone di Louise Brooks, che parla per didascalie ed è accompagnato dalla classica musica da organetto del cinema delle origini.
Due film in uno (Tote Schwule, Lebende Lesben) e due idee di cinema (militante) completamente diverse. All’occhio documentante e alla prospettiva storica di Rosa von Praunheim si contrappone la volubilità piaciona e vacua di Bruce LaBruce. La circolazione di questi due film è destinata a non uscire dal circuito dei festival gender bender, ma è un peccato constatare come Otto abbia molte più possibilità di attirare l’attenzione – un film di zombi gay! – nonostante tradisca tutte le aspettative artatamente create e cannibalizzi tutto quel che tocca: i corpi, la musica, le location. A morte Otto, viva Rosa.