L’evento più ghiotto di Officinema Festival svoltosi a Bologna dal 20 al 24 febbraio 2008 è stato senza dubbio la presenza del regista turco tedesco Fatih Akin, che ha incontrato il pubblico in due occasioni, e cioè giovedì 21 dopo la proiezione del suo esordio cinematografico Kurz und Schmerzlos (Rapido e indolore, Germania, 1998), e, il giorno dopo, in occasione della presentazione del back-stage del suo ultimo film, Ai confini del paradiso, realizzato da sua moglie Monique, dal titolo Diary of a film traveller (Germania/2007).
Stimolato dalle domande del direttore della Cineteca di Bologna, Gianluca Farinelli, Akin , nel suo primo incontro col pubblico fresco di visione, ha finito per parlare principalmente di cosa oggi lo allontana dal suo primo lungometraggio, realizzato all’età di solo 24 anni.
Nato ad Amburgo, figlio di immigrati turchi di seconda generazione, ammette di non aver vissuto un momento preciso in cui, come un’illuminazione, ha deciso di intraprendere la carriera di cineasta. Il suo racconto di zii e parenti che, durante la sua adolescenza, organizzavano per tutta la famiglia allargata proiezioni su telo bianco di qualsiasi film trovassero in circolazione fa intuire che in mezzo alla curiosità per il cinema egli ci è cresciuto,semplicemente.
Frequentata l’accademia del cinema ad Amburgo e dopo aver mosso i primi passi realizzando cortometraggi, è approdato al suo primo lungo con tutto l’entusiasmo e la freschezza di uno studente di cinema che ancora non padroneggia il mezzo, ma fa riferimento,soprattutto, ai film visti e agli autori amati.
Alla domanda di Farinelli su cosa provi vedendo a distanza di dieci anni il suo primo film, egli risponde senza esitazioni che l’unica cosa che lo colpisce sono i moltissimi errori che vi trova dentro, il suo carattere puramente naive. Il film in questione, Rapido e indolore, racconta la storia di tre giovani amici figli di immigrati, il greco Costa, il serbo Bobby e il turco Gabriel che, sullo sfondo di un’Amburgo multietnica e ricca di fermenti contraddittori sono alla disperata ricerca di uno spazio tutto loro, ognuno a suo modo.Le loro rocambolesche vicende perdono gradualmente il carattere ironico e giovanilistico dell’inizio per approdare senza via di fuga alla tragedia con tutti i crismi del caso: Gabriel, l’unico dei tre che avrà salva la vita-l’unico anche che, dalle parole di Costa, vuol diventare grande- fuggirà ad Instanbul, polo catalizzatore dei suoi sogni di una vita serena e matura, città di origine della famiglia di Akin, e a cui il regista è profondamente legato (all’inizio doveva interpretare lui stesso Gabriel, ma poi ha rinunciato, perché si preferiva dietro alla macchina da presa, che davanti).
Di fronte ad una domanda del pubblico volta a sottolineare i riferimenti ad un cinema orientale nella sua filmografia, Akin afferma che in realtà il suo cinema, soprattutto i primi tempi, ha avuto la spinta propulsiva solamente dal cinema occidentale: in particolare questo primo film è fatto sotto il segno del regista che egli dice averlo di più influenzato nella sua carriera, Martin Scorsese, tanto che alcune scene sono il tentativo di ricalcare lo stile di Mean Streets: per esempio l’uso di didascalie che presentano i personaggi all’inizio del film, oppure la scena in cui Costa, fuori di sé per la morte di Bobby, cammina per la strada urtando un uomo,e, di fronte alle sue proteste, torna indietro e lo picchia a sangue, che è girata con lo stesso fuoco e lo stesso tempo di esposizione (20 fotogrammi al secondo invece di 24) di una scena analoga in Mean Streets.
Per questo primo film molti hanno parlato di citazioni fassbinderiane riferendosi per esempio alle scene in cui i tre amici sono ripresi bidimensionalmente contro un muro bianco, seduti sul divano, ma Akin rivela che l’unico motivo di questa scelta è stata la sua completa ignoranza riguardo all’uso della profondità di campo e che soltanto nei film successivi il direttore della fotografia glielo ha fatto delicatamente notare, spingendolo a lavorare in tal senso, aprendogli gli occhi su come fosse necessario far muovere attraverso il quadro gli interpreti.
Anche il ritratto della figura femminile in Kurz und Schmerzlos non lo convince più: egli all’epoca, racconta, considerava la donna un essere superiore, migliore dell’uomo; per questo le donne in questo film sono dipinte come la parte buona del mondo maschile, cosa che oggi, che considera la donna uguale all’uomo, né meglio né peggio, non avrebbe fatto.
Aldilà delle riserve del suo creatore, questa prima opera, premiata con il Pardo di Bronzo al festival di Locarno nel 1998 e che è valsa ad Akin il premio come Miglior Regista Esordiente al Bavarian Film Award, prelude splendidamente a quello che sarà il suo cinema successivo, avendone in sé molti germi. Per esempio l’alternanza tra toni umoristici e leggeri e drammi che scaturiscono all’improvviso, e soprattutto la centralità dell’argomento che farà da traino a tutta la sua filmografia, e cioè le peculiarità della vita degli immigrati.
L’unico film in cui si è spostato dal suo ambiente culturale di immigrato in Germania è Solino (2002), che egli ricorda come il film che lo ha fatto crescere di più come regista e che racconta la storia di una famiglia italiana che da un piccolo paesino della Puglia, Solino appunto, decide di trasferirsi a Dusiburg, nel cuore del complesso siderurgico della Rur. E’ in quell’occasione-l’unica in cui Akin non era anche l’autore della sceneggiatura- che ha avuto modo di vedere la gran parte dei film neorealisti italiani, innamorandosene e traendone nuova linfa per il suo cinema.
E gli immigrati, egli dice con fierezza, sono anche il suo pubblico più affezionato (egli ha avuto successo internazionale solo a partire da La sposa turca , del 2004, con cui fu premiato al Festival di Berlino), e in particolare quelli che lui definisce i ‘turchi neri’, cioè quelli che vivono in Germania,che sono i principali protagonisti delle sue opere (vedi anche il documentario Crossing the bridge-The sound of Instanbul,2005, dedicato alla scena musicale turco-tedesca a Berlino) mentre i turchi bianchi, che vivono in Turchia, non hanno mai mostrato un’adesione di massa al suo cinema, forse perché Akin ritrae nei personaggi a cui dà vita retaggi e difetti della loro stessa cultura, e loro ne risultano un po’ infastiditi.
La cosa di cui sembra più di tutto convinto Fatih Akin è sfatare il mito del regista immigrato che, grazie alla diversità orientale, combatte il cinema commerciale sul suo stesso terreno: quando gli si chiede quali sono i suoi progetti futuri, risponde che auspica la rinascita del cinema di genere , patrimonio del cinema occidentale, che, proprio in quanto depositario di regole e di strutture precise, impedisce di cadere nel tranello per cui in arte tutto è possibile.Egli dice di diffidare,infatti, del cinema così detto artistico, proprio perché sotto l’etichetta di arte può essere messa qualsiasi cosa, in quanto non si possono porre limiti all’artisticità, e questo, se da una parte è un bene, dall’altra serve da alibi per la nascita di moltissime opere inutili. Akin dimostra così di credere nel cinema come mestiere da fare con onestà ed umiltà, e che non rinnega la sua funzione di puro intrattenimento, aldilà degli stereotipi.