Il cinema di Ryusuke Hamaguchi occupa lo spazio di confine tra osservazione ed ascolto. Nel lavoro di ricerca condiviso con Ko Sakai (Utau hito, Nami no koe, Nami no oto) la distanza formale tra registrazione e testimonianza, trasforma quest’ultima in una possibile prassi narrativa nel suo farsi, aggiungendo di volta in volta al valore documentale e antropologico, il progressivo sottrarsi dell’occhio “oggettivo” della camera rispetto alla sovrapposizione dei racconti. I testimoni, nel cinema documentario di Ryusuke Hamaguchi diventano narratori, le cui risposte eterogenee ci mettono a contatto con quelle caratteristiche della visione che emergono dalla parola, non importa che questa descriva gli effetti del dopo Fukushima piuttosto che la stratificazione temporale di una tradizione folklorica centenaria.
In un momento centrale di Happy Hour, Ms. Nose, la scrittrice invitata dal marito di Fumi (Mihara Maiko) per il reading di un volume di prossima pubblicazione, legge con tono dimesso e senza l’impostazione canonica di una lettrice, come le sarà fatto notare da una donna del pubblico, l’esperienza percettiva di Yayoi nel suo viaggio verso le sorgenti termali di Arima, vicino Kobe, la città in cui il film è ambientato.
Nella descrizione dei colori, dei corpi e della sostanza molecolare dell’acqua, il racconto penetra l’essenza delle cose mantenendo un sottile equilibrio tra sguardo soggettivo e documentazione di un luogo. Il treno in viaggio, i corpi dei bagnanti, il proprio corpo al confine tra percezione privata ed esperienza comunitaria e l’emersione di un paesaggio empirico e al contempo interiore descritti durante la lettura del racconto breve, consentono agli ascoltatori di confrontarsi con elementi di un contesto famigliare, come se fosse esperito per la prima volta. Nei continui scambi di prospettiva tra il pubblico e la scrittrice, prende forma un metodo, che è lo stesso di Ryusuke Hamaguchi e del suo cinema multisoggettivo, senza che questo si identifichi necessariamente in una figura di raccordo come quella di Ms. Nose.
Quello che è importante è l’attraversamento di quel confine tra racconto soggettivo e percezione del reale, reso possibile dallo scambio esperenziale continuo. La storia di Ms. Nose entra in risonanza con quella intima degli ascoltatori e genera reazioni contrastanti invitando all’ascolto di se stessi. È la stessa Ms. Nose a prendere le distanze dal personaggio di Yayoi, riempita in parte con i suoi sentimenti ma del tutto lontana dall’esperienza diretta; l’unico sguardo che le allinea entrambe è ignorare le stesse cose, cosi da tracciare la linea di un viaggio possibile animato dalla scoperta e dalla meraviglia “quello che Yayoi non conosce“, dirà Ms. Nose, “è quello che io non conosco“.
Anche la lettura, per Ms. Nose segue questo metodo: leggere per essere ascoltati, risponderà ad una donna del pubblico che le chiede conto del suo tono dimesso, non avrebbe consentito al pubblico di ascoltare veramente. È uno slittamento sottile che rimanda direttamente al cinema di Ryusuke Hamaguchi, il cui ritrarsi risiede nella capacità di stare a metà tra coinvolgimento e distanza, con gli attori liberi di gestire il limite tra consapevolezza performativa e verità.
È allora un cinema solo apparentemente simmetrico quello del talentuoso regista giapponese, apparentemente perché nel rigore delle inquadrature composite, vicine per certi versi alla tradizione Narusiana, c’è appunto la capacità di introdurre nella cornice del quadro moltissimi elementi (volti, oggetti, linee, la geometria di uno spazio dialogante) la cui possibile relazione si rivela in costante movimento e tesa a rovesciare ruoli, prospettive e sguardo soggettivo. Lo shomin-geki alla Ozu, come accade in Still Walking di Kore-Eda o in Café Lumiere di Hou Hsiao-Hsien non viene semplicemente imitato, ma riletto con un’attenzione specifica alla libertà del piano sequenza che cerca attraverso la durata tutti i possibili significati, anche contrastanti, tra quegli elementi di cui parlavamo e la loro collocazione nello spazio.
Se la ripetizione e i gesti ri-allocati, come per esempio il doppio svenimento di Fumi e del marito di Sakurako (Kikuchi Azuki) sembrano disegnare una traccia simmetrica, è al contrario nello sfalsamento del gesto o dell’evento, rispetto al diverso contesto in cui si verifica, che risiede la forza di Happy Hour, opera espansa di 317 minuti, la cui durata si rivela come assolutamente necessaria per elaborare la complessa dinamica combinatoria di racconto/ascolto che attraversa tutti i personaggi, e non solo le quattro donne da cui le vicende hanno origine.
Fumi (Mihara Maiko) organizza workshop legati al mondo dell’arte ed è sposata con un editore; Akari (Tanaka Sachie) infermiera dalla grande esperienza, è divorziata e ha un figlio; Sakurako (Kikuchi Azuki) madre di famiglia, ubbidiente e fedele ad un marito totalmente devoto al lavoro, vive con loro e con la suocera; Jun (Kawamura Rira) con una causa di divorzio in corso, combatte tra la sua libertà di essere ciò che desidera e l’insistenza del marito, biologo, che impugna il divorzio come un’arma per tenerla vicino a se ad ogni costo.
Ryusuke Hamaguchi ce le mostra tutte e quattro intorno ad un tavolo, mentre dalle colline circostanti dominano la città di Kobe, immersa nella nebbia; l’orizzonte opaco “ricorda il nostro futuro”, diranno durante la conversazione, in una breve sequenza introduttiva declinata al futuro anteriore e dalla forza evocativa Markeriana.
È l’introduzione alla prima parte, dove troviamo Kohei (Yoshitaka Zahana) formatore di un workshop di esercizio all’ascolto, che guida le quattro donne durante una serie di esercizi di relazione con il corpo e il pensiero. Dalla vicinanza al ventre fino alla possibilità di percepire i pensieri mediante contatto, la ricerca di un centro personale di gravità sembra seguire alcuni precetti dell’Hata Yoga o della quarta Via di Gurdjieff; Ryusuke Hamaguchi lascia fuori qualsiasi riferimento specifico, tanto che l’introduzione al Workshop, con il lavoro di Fumi legato alla comunicazione dell’evento, li cattura un momento prima a discutere sul flyer pubblicitario, volutamente impostato in modo vago, come a non voler preliminarmente indirizzare gli astanti su quello che troveranno durante la seduta.
A Ryusuke Hamaguchi, come se si trattasse della relazione di scambio attiva e non gerarchica tra intervistatore e intervistato, interessa sin da subito attivare un cinema empatico, la cui complessità risiede nell’incessante movimento di un racconto che si forma, si sfrangia e si biforca durante il percorso.
Kohei si intratterrà con le quattro donne durante una cena, dove la relazione d’affetto ma anche di interdipendenza tra di loro, comincerà a stratificarsi come se facesse parte di un lungo percorso di emancipazione dal dolore, che attraverso il punto di vista femminile introduce quello maschile come parte di una cultura famigliare dove tutti quanti sono vittime.
E se la sequenza del processo con Jun al centro, mentre le amiche rimangono sullo sfondo e il giudizio maschile occupa una parte simmetrica dello spazio, sembra proporre l’immagine di una violenza invisibile ovvero quella a cui Jun stessa assegna il significato di abuso senza che questo sia per forza perpetrato fisicamente; in un incontro successivo tra la donna e il marito, Ryusuke Hamaguchi mette in scena magistralmente due gesti rovesciati, il cui significato è diversamente percepito dalla coppia. L’inerzia di lui è una forma brutale che Jun percepisce come tale al punto di desiderare che esploda nella violenza fisica; lei proverà infatti a strangolarlo dichiarando il suo desiderio di ucciderlo, mentre il marito l’abbraccerà bloccandola in un gesto affettivo da cui la donna vuole liberarsi come se fosse costretta in una prigione invisibile.
La stessa mancata corrispondenza genera una lettura diversa del sentimento quando la relazione quasi matrilineare tra Jun e il figlio di Sakurako rivela il ruolo maieutico di Jun in svariati contesti. È lei che ha agevolato l’amicizia tra le quattro amiche, ed è sempre lei che in qualche modo ha spinto Sakurako verso l’esperienza della maternità. È un’empatia che Ryusuke Hamaguchi ci mostra come parte di una serie di linee convergenti e allo stesso tempo disgiuntive che mettono al centro i personaggi di Happy Hour come capaci di vivere allo stesso tempo distacco e vicinanza in condizioni diverse. A questa breve scintilla tra Jun e il figlio di Sakurako, corrisponde come un’immagine allo specchio l’incapacità della madre naturale e sopratutto del padre di avvicinarsi al mondo del ragazzo, nel pieno di un dramma personale che coinvolge una giovane ragazza incinta di lui.
Ryusuke Hamaguchi segue minutamente ruoli e convenzioni nel difficile rapporto tra desideri e doveri coniugali, un contrasto che sembra esplodere nella parte centrale, quando Ms. Nose affronta il reading del suo racconto breve e si confronta successivamente durante una cena, con Fumi, il marito di lei anche editore del libro, Sakurako e con il marito di Jun, disperatamente in cerca della moglie dopo aver vinto il processo per il divorzio e a cui viene improvvisamente affidato il Q&A con Ms. Nose subito dopo la lettura, in sostituzione dell’artista che avrebbe dovuto presenziare.
Anche in questo caso Ryusuke Hamaguchi si affida alla relazione tra racconto dialogico e risonanza, elaborando tutte le prospettive e mantenendo una distanza che non giudica, tanto che il marito di Jun, fino a quel momento descritto come incapace ad esprimere qualsiasi sentimento, si rivela attento lettore della realtà letteraria evocata da Ms. Nose. Ed è prodigioso, nel movimento della durata, constatare come il cinema di Ryusuke Hamaguchi riesca a restituire con grande forza l’impermanenza del punto di vista, il suo continuo trascolorare nei soggetti coinvolti, tutti portatori di un elemento di verità possibile, dove il crinale tra abuso ed empatia, cecità e visione, dolore e improvvisa illuminazione, sembra attraversare tutti i personaggi.
Quando Fumi si separerà dagli ospiti fuggendo dal tavolo e gettandosi per le strade di Kobe quasi ad anticipare la separazione con il marito, Sakurako la seguirà per la strada in una delle sequenze più belle di tutto il film, così vicina e anche lontana d/al cinema “deambulante” di Mikio Naruse, dove ogni sentimento, funzione e ruolo è lo specchio di un desiderio integrante ed opposto; Sakurako rimarrà sul vagone del treno rivelando l’immagine del suo desiderio come se si trattasse di un improvviso cambio di direzione del vento, fuori dal contesto famigliare dove chiede a se stessa e le viene chiesta devozione. Quello stesso sentimento devozionale, conviverà nel confronto successivo con il marito, a cui confesserà il tradimento e rispetto al quale non ha intenzione né di separarsi, né di scusarsi.
Nel cinema di Ryusuke Hamaguchi, se si deve davvero parlare di “simmetrie”, niente combacia se non in una relazione aperta che consente di far emergere la luce anche dalle prospettive più asfittiche: il terribile processo ai danni di Jun sarà descritto dal marito come l’unica possibilità per entrambi di parlarsi; allo stesso tempo la sua incapacità di leggere empaticamente i sentimenti della moglie sembrano contraddetti dall’acuminata lettura del racconto scritto da Ms. Nose.
Lo stesso Kohei, occupa lo spazio di un controverso maestro di vita che a un certo punto sembra interessato ad esercitare un potere seduttivo sulle allieve, prima provandoci con Fumi poi ripetendo la stessa strategia con Akari, l’infermiera, conducendo questa in un disco pub dove avrà luogo un complesso intreccio di sentimenti e desideri. Il ruolo di Kohei non è quindi né del tutto positivo né del tutto negativo, la sua figura sembra rappresentare davvero una posizione tra l’ascolto e l’osservazione, esattamente come quella di Ms. Nose o dello stesso Ryusuke Hamaguchi quando intervista gli abitanti della regione di Tohoku nei suoi film condivisi con Ko Sakai. Quando la claudicante Akari dopo ripetute e rovinose cadute durante il ballo, viene issata dalla gente che occupa la pista come in una prassi di stage diving, Kohei rimarrà ai margini ad osservare questo scambio progressivo di energia, continuo e senza soluzione di continuità come se fosse un guardiano della coscienza, occupando una posizione che gli consenta di ascoltare le complesse combinazioni accordali del desiderio.
Happy Hour è davvero l’opera di un autore da tenere d’occhio, talmente ricca e complessa da non poter essere “smontata” e rimontata con il solo riferimento alla tradizione di un cinema che, sicuramente presente come nei film di Kore-eda Hirokazu, viene improvvisamente a mancare quando si individua un “punctum” inedito e di grande modernità, lo stesso che riempie e improvvisamente svuota l’inquadratura lasciando al racconto e agli storytellers la libertà di uscire dalla cornice.