[ Guarda il video dell’incontro tra il pubblico del River To River Indian Film Festival e Joy Roy registrato il 13 dicembre 2007 al cinema Gambrinus a Firenze, in occasione della presentazione di Remembering Bimal Roy, il documentario realizzato da Joy Roy Stesso]
Do Bigha Zamin (Bimal Roy, India, 1953)
“Ci sono ancora i risciò portati a mano: ho dovuto prenderne uno a Cochin a notte alta, per tornare all’albergo […] non ho avuto però il coraggio di farmi trasportare: così mi sono fatto tutte le otto miglia a piedi, chiacchierando con Josef, l’uomo del risciò […] aveva sette, otto figli da mantenere, e si era ridotto così a fare da cavallo, tra quelle due orribili, ripugnanti stanghe del suo carretto .” (( Pier Paolo Pasolini, L’odore dell’India in Romanzi e racconti, I Meridiani, Mondadori ))
E’ proprio questo sottoproletariato agricolo a interessare e diventare l’oggetto di Do Bigha Zamin (Due acri di terra, 1953), narrazione delle vicissitudini di una famiglia che deve riscattare la propria terra (due acri, appunto) – che è tutto ciò che possiede – dalle mire dei grandi proprietari che gli sono creditori. E la terra è il tema fondamentale su cui si fonda il film, il motivo di partenza della vicenda, il perno su cui si sviluppa la trama. La prima inquadratura, mentre scorrono i titoli di testa, non a caso, è proprio la terra riarsa dopo una lunga siccità. Si genera immediatamente un dato tangibile che rappresenta la base, l’origine dei bisogni, delle relazioni, dei rapporti su cui si fonda una società e ciò che da essa scaturisce, il divenire della stratificazione della vita sociale. Il nodo della storia è proprio la ricerca affannosa, disperata del valore monetario stabilito per potersene riappropriare, per ritornare ad esserne proprietari e ristabilire un sistema ordinato di scambi e di relazioni sociali. Il padre di famiglia Shambu è costretto a lasciare la campagna, primo atto di disequilibrio, per andare a cercare un lavoro in città. Il tragitto di Shambu che si allontana dal suo villaggio, dalla sua famiglia, dalle sue origini è contrappuntato dal canto dei contadini, che, come in un coro greco, si fanno portavoce dei sentimenti di malinconia che accompagnano chi emigra, drammatizzando il senso di smarrimento. E lo smarrimento può cogliere lo spettatore occidentale quando, come parentesi oniriche aperte su improvvise dilatazioni temporali, gli irrinunciabili canti e le danze, tipiche della cultura popolare indiana, sono inserite da Bimal Roy in un contesto assolutamente realistico, debitore, nella povertà della fotografia e nella meravigliosa economia dei mezzi espressivi, del neorealismo italiano ed in particolare di De Sica (di cui Roy aveva potuto vedere, in un festival, Ladri di Biciclette).
I diritti dei più forti generano altresì un controcanto volgare (le frequenti inquadrature delle pance dei borghesi, stretti in abiti occidentali). La volgarità trapela in tutta la sua evidenza nell’incitamento dei due amanti borghesi che per capriccio conducono, uno dal risciò trainato da Shambu, l’altra dalla carrozzella portata da un cavallo, il pover’uomo verso una corsa disperata e senza voce. Il ritmo incalzante del montaggio (l’utilizzo creativo, libero del montaggio è un altro tratto fondamentale dell’opera di Roy), attraverso brevi stacchi e veloci dissolvenze incrociate, conduce l’azione verso l’inevitabile climax drammatico. Le gambe e i piedi scalzi dell’uomo che corre sono accostate alle zampe dell’animale, lo sforzo disperato impresso sul volto genera un senso di angoscia insopportabile, esasperata dalla musica in crescendo fino al momento in cui la ruota del risciò si rompe e Shambu, cadendo, si frattura una gamba. In quel momento, nodo cruciale del film, sottolineatura stilistica della rottura delle illusioni di riscatto dei protagonisti, Roy lascia trapelare una visione marxista del lavoro che nella coincidenza tra l’uomo e il mezzo stesso, attraverso la reificazione, segna una perdita assoluta ed irrimediabile di possibilità.
Quando si dovrà scegliere, con i soldi finalmente guadagnati, tra la sopravvivenza della moglie e madre e la riconquista della terra, la sfera umana entrerà in collisione con le leggi economiche che una classe dominante impone sulla classe subalterne e i tre, tornati al proprio villaggio come una famiglia, non avranno, in un finale sospeso tra l’iconografia socialista e la tentazione del melodramma hollywoodiano, nemmeno la consolazione di un metaforico pugno di terra.
Bandini (Bimal Roy, India – 1963)
Nello spazio rigidamente delimitato del carcere le azioni che le detenute svolgono durante le ore di lavoro possono diventare occasione di accese liti, ma possono anche trasformarsi in ritmo e musica (come in musica si tramutava il ritmo del lavoro dei contadini di Do Bigha Zamin), così che lo spazio possa divenire un luogo di libertà, solo mentale. Sono parentesi consolatorie, come di momentanea amnesia per lo spettatore, ritagliate da un montaggio liberissimo, con frequenti inquadrature dal basso che lasciano intravedere la presenza del cielo.
Bimal Roy inserisce nel contesto melodrammatico un’attenta analisi psicologica tutta al femminile. Emerge, ancora una volta, il progressismo del regista: le donne sono il motore dell’azione, è attraverso loro che la macchina melodrammatica ottiene la sua forza.
Alla musica dolce che fa da accompagnamento alle vicende dei protagonisti e che da loro stessi scaturisce, fa da contrappunto un rumore assordante, che da elemento intradiegetico (sullo sfondo si intravedono saldatori al lavoro) diventa rappresentazione sonora dell’attimo di lucida follia che la protagonista sta vivendo; gli stacchi brevi, l’uso della luce intermittente, giustificata dalla presenza di una fiamma sullo sfondo, e tuttavia trasfigurata nella sua ripercussione sulla bottiglia di veleno e sul volto della donna in chiave espressionista, conferiscono alla scena il senso allucinato di un punto di non ritorno. La calma sempre impressa sul volto di Kalyani vacilla quando dentro di sè realizza la possibilità di uccidere qualcuno, fino a esplodere nella scompostezza dell’isteria nel momento in cui, davanti all’uomo che ama, confesserà di essere colpevole dell’assassinio della moglie. Il melodramma nutritosi anche di quel momento, porta avanti il racconto e trascina lo spettatore verso l’ultima scena, sulla nave che porta via i due innamorati, verso una fine che sfuma nella nebbia dei sentimenti.