REC di Jaume Balaguerò e Paco Plaza chiude una troupe televisiva dentro il set di un piccolo gore fatto di Zombie in modo da sfruttare la postura del reale come trucco per innescare un fragile dispositivo drammaturgico. Di fatto chiude davvero il suo operatore in un set dal percorso già determinato e costruisce un making involontario di un film nell’atto del suo disfarsi; quasi si rimpiange il Danny Boyle di 28 days later che nella sua flaneurie geometrica e privata dello stupore infantile, riusciva comunque a sorprendere e a sorprendersi nel labirinto tra set e città-set. Niente di rigoroso in REC, niente del rigore visivo dichiarato se non nella versione davvero più autoritaria di soggettiva, a un certo punto si desidera davvero che la DV di Pablo entri in possesso di una delle creature che infestano il condominio e strappi la visione al gioco facile facile di un fuori campo che non pulsa, che non preme dai margini e contro una teleobiettività senza perdite; c’è un minimo interesse teorico nel film di Balaguerò-Plaza, ed è l’orizzonte negativo del guardare come subire, guardare come reale incapacità di vedere cosi come di essere visti.
E’ casomai sul piano della percezione auditiva che il dispositivo rischia di increspare l’organizzazione fin troppo narrativa, determinata, corale del set con un approccio selvaggio allo shock sonoro legato alla distorsione/saturazione, ma anche in questo caso non siamo in presenza di una profondità sensoriale, quello che si ripete è la solita idea di soggettiva, truccata dal momento in cui non si fa nessun mistero sulla sua provenienza, liberandola da qualsiasi ambiguità. Viene in mente, per opposizione, altro cinema della crudeltà digitale come Focus di Satoshi Isaka, o per questioni diverse e anche più banali, Blair Witch Project, dove il film davvero non esisteva ed era già risucchiato dall’ipervisibilità mediatica.