Sono più di trenta le trasposizioni cinematografiche dei romanzi e dei racconti di Edogawa Ranpo, pseudonimo di Hirai Taro, “La bestia nell’ombra” è uno dei pochissimi lavori dello scrittore tradotti in italiano, edito nel 2002 dala casa editrice Marsilio. Barbet Schroeder propone la sua personale interpretazione di questa opera presentando “Inju” alla 65esima edizione del Festival del Cinema di Venezia.
Il film si apre con un film nel film, annuncio gridato di un inganno nei confronti dello spettatore, quasi un cortometraggio che riporta alla tradizione dell’hard boiled giapponese; la visione del film si carica da subito di un insieme di strati sovrapposti che dall’opera letteraria portano al film, poi al film nel film e da questo allo studio dell’opera di uno scrittore misterioso, proposto a sua volta da uno scrittore nonché docente universitario, Alex Fayard, protagonista suo malgrado della torbida vicenda che lo vedrà sempre più inchiodato al ruolo di personaggio.
In particolare il film ruota attorno al mistero della figura di Shundei Oe, il più famoso scrittore di romanzi gialli nel Regno del Sol Levante. Al mistero di questi si aggiunge quello della geisha Tamao, che Alex Fayard, scrittore francese di gialli, profondo conoscitore dell’opera di Oe, incontrerà al suo arrivo in Giappone per presentare il suo ultimo libro. Lo spettatore è costretto nel punto di vista di Alex Fayard. Con lui è soggiogato nel divertissement imposto da Schroeder che gioca con i generi, che rende il suo protagonista principale un personaggio vittima di una trama creata da altri. La pellicola gioca col perturbante in maniera ossessiva, e funziona molto bene finchè si limita alla visione della cicatrice sulla schiena della bella geisha, sintomo, tarlo della malattia che si insinua nella mente razionale di un Occidentale. In seguito il film diviene altro. Il tarlo si ingigantisce fino a diventare follia, una follia guidata, artificiosa, così come rischia di apparire artificioso l’intero film.
L’artificio della geisha che incanta l’uomo occidentale (come non pensare a più di un ammiccamento al capolavoro cronenberghiano di “M.Butterfly”, a partire dalla colonna sonora dalle suggestioni simili a quelle di Howard Shore), artificio dei generi, dei clichè, delle situazioni, del basic instinct alla Verhoeven; dal mistero della forza creatrice/distruttrice della scrittura (sulla schizofrenia dello scrittore avevano già detto molto Romero, i Coen, Carpenter e lo stesso Cronenberg con “Il pasto nudo”) , alle case stregate e/o infestate (quante!) dei film horror, dalle doppie e triple identità dei thriller e dei gialli, dal “niente è come sembra”, dalla frase “segua quella macchina”dei film polizieschi, Schroeder non risparmia niente allo spettatore, costringendolo ad un surplus di situazioni e di inganni in cui anche un flashback narrato dalla geisha Tamao è solo un gioco ai danni del protagonista e dello spettatore.