Una donna vive da sola nella periferia di un villaggio Russo. Un giorno riceve indietro un pacchetto che aveva mandato al marito, rinchiuso in carcere. Sul pacco le dicitura “restituire al mittente”. Scioccata e confusa, la donna non ha altra scelta se non viaggiare fino al luogo dove si trova la prigione, in una regione remota del paese, per ottenere una spiegazione. Comincia in questo modo la storia di una battaglia contro una fortezza impenetrabile, la prigione dove le forze del male sociale sono costantemente al lavoro. Affrontando violenze e umiliazioni, la nostra protagonista ingaggia una cieca battaglia per la giustizia
Con il breve racconto di Dostoyevsky il film di Sergei Loznitsa ha in comune solamente il titolo. La donna gentile del regista ucraino lo è in un senso diverso da quello del romanziere russo e anche della tradizione stessa del paese. La sua protagonista è tenace e stoicamente combatte per tutto il film senza sorridere una sola volta. L’interesse è in un’area differente, studiare lo spazio e un habitat dove le persone sono costrette ad esistere. Mentre la vittima è una sola, chi perpetra le torture è rappresentato da più personaggi, una qualità sadica distribuita attraverso una moltitudine di persone, tanto da rendere l’ambiente stesso minaccioso e aggressivo.
“È una metafora che racconta un paese dove le persone sono costantemente violate dagli altri – ha detto Loznitsa – divise tra omertà e orribili violenze che accadono ogni giorno. Questo per me rimane un grande e irrisolvibile enigma. Invece di vivere pacificamente insieme, ad ogni fase delle nostra vita siamo forzati a imboccare percorsi difficili, disonesti e terribili. È il peggiore dei paradossi di cui ha paura da quando avevo cinque anni e che ancora oggi non riesco a comprendere. Il punto di non ritorno nel film arriva quando la protagonista si trova fuori dalla prigione e comincia a manifestare con una piccola protesta privata nella zona antistante. Un nucleo di personaggi appare intorno a lei e la storia comincia a dipanarsi”
Loznitsa ha lavorato con il direttore della fotografia Oleg Mutu, l’ingegnere del suono Vladimir Golovnitski e lo scenografo Kirill Shuvalov.
Quello che il regista ucraino ha cercato di ricreare è un senso di radicamento nel territorio dove ha girato il film, ovvero Daugavpils, in Lettonia, ma allo stesso tempo puntando a trasformarlo in un luogo mentale. Loznitsa ha girato in questa piccola città popolata al novanta per cento da russi anche per questioni logistiche. Non era richiesto un passaporto speciale, ma allo stesso tempo il luogo mantiene ancora tracce dell’amministrazione sovietica. In quest’area ci sono anche due prigioni, una di queste è quella del film. Il modello di queste strutture, simili a fortezze, è presente in tutta la Russia. Hanno un aspetto solenne, strano, vicino all’aspetto di un castello, ma con un carico repulsivo fortissimo, nel contrasto che provocano con il paesaggio.
“Stalin ordinò che i mattoni di questi edifici fossero dipinti di bianco – ha detto Loznitsa – probabilmente per renderli nell’aspetto simili ad un monastero! Quella che abbiamo filmato si chiama “Il cigno bianco”, ce n’è un’altra chiamata invece “il cigno nero. I processi staliniani degli anni venti non sono mai stati seriamente studiati o documentati; tutte le persone innocenti che sono state torturate per ottenere una confessione, sapevano che sarebbero state comunque giustiziate; gridavano “Gloria a Stalin” mentre morivano, accettando di interpretare un gioco e di confessare il tradimento. È una condizione psicologica peculiare di questo territorio. In confronto, quella Europea o Francese è simile a come l’ha descritta Bresson nel suo “Un condannato a morte è fuggito”: come individuo, non sei parte dell’inferno in cui vogliono tu anneghi. In Russia al contrario sei parte dello stesso inferno. Questo è il motivo per cui è difficile discutere di una colpa individuale in termini specifici; la colpa è sempre collettiva, condivisa dal popolo intero. Tutti lo sanno e lo capiscono, e nessuno può, né vuole redimersi”
Per Loznitsa un processo di totale disumanizzazione è cominciato sin dalla rivoluzione del 1917: “La visione occidentale della Russia viene definita attraverso l’arte, la pittura, la letteratura e il cinema. È una visione che appartiene ad un passato remoto. I grandi scrittori Russi rimangono ancorati al passato, perché si è cominciato a sbarazzarsi di tutto questo nel diciannovesimo secolo. Se si considera l’arte pionieristica russa all’inizio del ventesimo secolo, il paese avrebbe potuto essere all’apice a quel tempo, ma tutto è stato spazzato via e dobbiamo dimenticare questa civiltà perduta. Una volta fu chiesto a Rachmaninov se gli mancava il suo paese. Rispose che non ne aveva alcuna nostalgia, perché quel paese non esisteva più. Un periodo di lunghi addii, una cerimonia funebre che è durata fino alla fine degli anni sessanta. Da quel momento, non c’è più niente. L’economia, la scienza medica, la salute, l’educazione: tutto distrutto. Se guardi al livello medio di aspettative di vita per un uomo russo è costantemente in discesa ed adesso è intorno ai 56 anni. In alcuni campi il governo continua ad applicare i metodi Bolscevichi. Non dimentichiamoci che l’idea del terrorismo è emersa in Russia, per tirar fuori un atto pubblico che coinvolgesse persone innocenti e per condividere la colpa di questo stesso atto, un aspetto che potrebbe emergere solo dove non c’è alcun rispetto per la vita. È uno pseudo-intellettualismo filosofico che ci dice “Non uccidiamo per il nostro bene, ma per quello degli altri”. È in Russia, con Nechayev che questa idea è nata, è stato lui che ha portato l’ideologia del terrorismo alle sue logiche conclusioni ”
Loznitsa dice che per capire la Russia contemporanea è necessario leggere i “Demoni” di Dostoyevsky e “Le anime morte” di Gogol: “tutti i principi contenuti in quei romanzi sono ancora validi oggi”
Il pensiero del regista ucraino va ai Gulag, ancora un grande tabù “Ci saranno al massimo tre film sull’argomento, ovvero sui luoghi dove il destino di milioni di persone è stato spezzato”