[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”” class=”” size=””]Sinossi: Una riflessione sulla vita umana in tutta la sua bellezza e crudeltà, splendore e banalità. Vaghiamo, come in un sogno, guidati soavemente da un narratore alla Schererazade. Momenti casuali assumono la stessa importanza di eventi storici. Ode e lamento, About endlessness presenta un caleidoscopio di tutto ciò che è eternamente umano, una storia infinita sulla vulnerabilità dell’esistenza [/perfectpullquote]
Non potendo adattare alla configurazione visiva le caratteristiche spazio-temporali dell’infinito, per raccontare la perpetuità della vita – intesa come inarrestabilità dell’energia cinetica che si trasforma e si flette in altro per perpetrarsi o come ricorsività degli stessi comportamenti umani – il regista Roy Andersson articola la sua dimostrazione per inverso. Non si cura dell’irrappresentabilità di una nozione virtuale, propone un infinito compreso grazie alla riduzione del mondo rappresentabile a particelle, unità minime esemplificative: seleziona quindi le tracce della perpetuità e le taglia, le seziona, le determina, le costringe a un’apparente finitudine che non soffre mai della negazione determinante e invece si fa sunto sinottico. Abbandona quindi in partenza il tentativo infruttuoso di rappresentare la circolarità delle esperienze umane tramite la geometria e accoglie invece l’idea di poterlo fare attraverso il microscopico e rallentato dettaglio; stressa la messa in scena con un controllo sull’immagine minuzioso – e forte di richiami pittorici – al punto da eliminare ogni forma di spontaneità che non sia quella del ragionamento: minimalizza cioè l’apparato scenico ai massimi termini costruendo modellini che rispondono perfettamente alle sue idee e che contengono un solo gesto, un solo dettaglio, una costruzione di senso magari nascosta che motiva l’esistenza della scena e allo stesso tempo la compromette. Quello che ne risulta è un catalogo di momenti in cui è possibile riscontrare la tendenza ripetitiva dell’umano e riconoscere la perpetuità del suo respiro. Il discorso teorico di Andersson però non si esaurisce a una proposta di testimonianza visiva, a un’attestazione, si sublima invece e si completa in una riflessione scopica. L’utilizzo di una voce over che presenta alcune scene è motivato dalle parole “ho visto”, come se solo vedendo le azioni si creasse la perpetuità delle stesse. Con questa suggestione il regista alza il livello della sua interpretazione visuale fino a una domanda cardine: quando non ci sarà più nessuno a guardare il mondo ci sarà ancora in eterno? Se non si aprono gli occhi si mette in dubbio l’eternità.