Il linguaggio comico con cui l’esordiente australiana Shannon Murphy imposta il tono di Babyteeth alleggerisce e allo stesso tempo ribalta la tragicità, cambiando le dinamiche gravitazionali dello spazio in cui si colloca ogni discussione relativa direttamente o trasversalmente al tema centrale del film: la malattia. Attraverso questa sovrascrittura, che non solo avviluppa la narrazione, la sottende anche e la sostiene, il film trova altri corridoi di percorrenza (soprattutto incarnati dalle prestazioni attoriali, soprattutto quella di Ben Mendelsohn) per ragionare sulla fragilità dell’esistenza e sullo scadere del tempo.
Proprio per questo mentre cerca di togliere peso grazie alla rilettura quasi assurda, tenta in parallelo di dare materia al tempo e non al corpo, allontanandosi dalla descrizione epiteliale della malattia e alle possibilità iperrealiste della rappresentazione, insistendo invece sulla frammentazione dei momenti che costituiscono gli ultimi mesi di vita di Milla (Eliza Scanlen), la protagonista.
Questo ossimoro, che colloca il film tra leggerezza e drammaticità, tra assenza di peso e improvvisa cementificazione delle certezze, è una scelta teorica di pregio circondata da forti disequilibri e slabbrature: l’ingenuità dello slancio dilata i tempi (quasi cercando di salvare il personaggio destinato a morire) e forzando alla ripetitività delle soluzioni annulla i momenti inaspettati in cui collassa la spensieratezza.
Babyteeth rimane comunque un esordio interessante, in cui riposano ottime intuizioni di linguaggio.