domenica, Dicembre 22, 2024

Robe of Gems di Natalia López Gallardo: recensione #Berlinale72

Tre donne legate dal dolore della perdita, incorporano le ferite di un paese intero, diventando corpo politico e sacrificale di una società fondata sulla violenza, l'abuso e la corruzione. L'esordio nel lungometraggio di Natalia López Gallardo disorienta, emotivamente e percettivamente. In concorso a Berlino

La visione di Robe of Gems, a caldo, genera un vero e proprio disorientamento emotivo e percettivo. Il paesaggio scabro e primordiale di Ocotitlán, nello stato del Morelos, contribuisce alla costruzione di una temporalità sospesa, dove il senso permanente di minaccia viene assorbito dalle rocce, dall’aridità del suolo e dai fenomeni aurali delineati grazie al sound design accuratissimo di Guido Berenblum e Thomas Becka. L’opera prima di Natalia López Gallardo è molto specifica nel far emergere gli aspetti sensoriali periferici, tanto da dissolvere lentamente sullo sfondo i dialoghi, i corpi, il nucleo stesso dell’azione e la cronologia degli eventi.

Tre donne legate dal dolore della perdita, incorporano le ferite di un paese intero, diventando corpo politico e sacrificale di una società fondata sulla violenza, l’abuso e la corruzione.

Nella grande villa dove Isabel (Nailea Norvind) vive insieme ai figli e sperimenta la fine del suo matrimonio, tutto sembra corroso dall’interno. L’anziana madre che replica i gesti di un retaggio padronale, l’architettura funzionale immersa tra le coltivazioni e la polvere, la piscina dove i ragazzi si abbandonano alla narcolessia di giornate interminabili, sono i marcatori temporali di una cornice spazializzata della paura.

Il fatto che la Gallardo rinunci ad una narrazione esplicativa, marginalizzando il centro narrativo anche all’interno di una singola sequenza, le serve per immergerci in una dimensione enigmatica che può essere compresa attraverso la perdita di tutte le coordinate.

Assalite dal rimorso e dal vuoto della morte, le tre donne si confrontano quotidianamente con i fantasmi di uomini, bambini e altre donne, improvvisamente annientati dal ventre oscuro di un paese senza futuro. Niente allora fa più paura di una temporalità che ha disinnescato la potenza creativa dell’evento.
Tutto accade senza che sia possibile individuare alcun principio generativo, perché la comunità non esiste più.

Al centro di questa disgregazione assoluta non è più possibile distinguere la dinamica tra vittime e carnefici, perché nella giostra delle sofferenze la Gallardo colloca progressivamente fuori fuoco le ragioni delle principali figure femminili, intrappolate in una realtà incodificabile. Il fuoco dell’obiettivo è tra l’altro uno dei motivi visuali ricorrenti, nelle false soggettive che affidano al dissolversi complessivo dell’immagne, la sofferenza delle tre figure femminili.

Una sorella scomparsa per María (Antonia Olivares), la vita di Isabel in frantumi, quella di Roberta (Aida Roa) che da poliziotta deve affrontare lo scivolamento del figlio nel sottomondo criminale dei narcos.

E sono proprio le realtà sotterranee ad erompere in ogni momento dall’inferno alla luce del sole.
L’estetica di una beretta che seduce i bambini, oppure le armi che occupano il centro delle conversazioni maschili, esattamente come lo spettro del rapimento, arma di sopraffazione o di riscatto, determinano una cancellazione dei confini etici e morali che la Gallardo sottolinea servendosi di una scrittura potente e disgiuntiva, dislocando sguardo e suono, ma allo stesso tempo potenziando il valore intraducibile dell’esperienza soggettiva, rispetto ad una schematizzazione classista che l’autrice messicana evita consapevolmente.

Siamo con il dolore di Maria, la donna al servizio di Isabel, anche senza comprenderne fino in fondo le ragioni, perché il suo stesso pianto condivide il luogo della vittima e quello del carnefice. Così Isabel, sospesa tra il rispecchiamento dell’eredità famigliare in una posizione di apparente potere e l’improvvisa torsione del destino che la trasforma in vittima, corpo bianco da disprezzare, stuprare, torturare. Coesistenze inevitabili e che diventano evidenti nello spazio di frontiera occupato da Roberta, quello dove la polizia può prevenire e consentire tutte le forme di abuso.

L’unica forza oppositiva alla persistenza della morte non è certo la legge, ma l’anelito verso l’indecifrabile.

Il vaticinio di una cieca e il corpo in fiamme di un uomo in mezzo ai campi.

Manifestazioni di realtà eccedenti.

Robe of gems di Natalia Lòpez Gallardo (Messico, Urgentina, USA 2022 – 118 min)
Interpreti: Nailea Norvind, Antonia Olivares, Aida Roa, Juan Daniel Garcia Treviño, Sherlyn Zavala Diaz
Sceneggiatura: Natalia López Gallardo
Fotografia: Adrián Durazo
Montaggio: Natalia López Gallardo, Omar Guzman, Miguel Schverdfinger

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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