Nell’esistenza di ciascuno vi sono momenti in cui il confine tra luce e buio si confonde e in cui il decidersi per la luce non significa scegliere la vita.
A volte, per via delle decisioni che si assumono in questi istanti, tutto prende un corso nuovo, che ci allontana da ciò che erano stati fino a quel mentre la casa, il lavoro, gli affetti, i ricordi, la nostra storia individuale.
A volte, per via di tali decisioni muteranno, con un effetto domino, anche le vite delle persone che ci sono più vicine, amici, genitori, figli causando forse nelle loro anime ferite indelebili.
Se poi, anni dopo, qualcuno tra quanti ci si è lasciati indietro tornerà dal passato a trovarci per domandare la ragione di quella della nostra scelta di allora, scopriremo che non esiste una risposta che motivi realmente questo cambiamento senza, al contempo, sminuirlo.
Intorno a questa tematica si sviluppa il terzo lungometraggio della regista peruviana Claudia Llosa (premiata nel 2009, con l’Orso d’Oro per il dramma La teta asustada). Il film, intitolato “Aloft”, è ambientato in Canada e Alaska ed è incentrato sul sofferto rapporto tra Nana Kunning (Jennifer Connely: “Noah” di D. Aronofsky, 2012; “A Beautiful Mind” di R. Howard, 2001, premio Oscar come migliore attrice non protagonista) e suo figlio Ivan (interpretato, da piccolo, da Zen McGrath e da grande, da Cillian Murphy: “Inception”, di C. Nolan, 2011; “The Wind that Shakes the Barley”, di K. Loach, 2006).
Nana lavora in una fattoria, vive dal padre ed è madre di due bimbi, il più piccolo dei quali, Gully (Winta McGrath), è afflitto da un tumore al cervello. Nonostante i medici non diano speranze di guarigione al bimbo, la madre non si rassegna a vederlo regredire mentalmente e attendere impotente la sua morte. Dal canto suo, il figlio maggiore Ivan, vive i suoi 10 anni all’ombra della malattia del fratello e compensa la mancanza di attenzioni da parte della madre dedicandosi all’allevamento di falchi, come già avevano fatto il padre e il nonno paterno.
Quando Nana decide di portare Gully da un guaritore di nome Newnam (William Shimmell: “Amour” di M. Haneke, 2012; “Certified Copy” di A. Kiarostami, 2010), questi avverte in Nana dei poteri taumaturgici e le propone di divenire sua allieva. Morto Gully in circostanze tragiche, Nana accetta di seguire Newman e abbandona il figlio Ivan col nonno. Intraprende così un percorso che la porterà a divenire nell’arco di vent’anni una guaritrice internazionalmente nota.
Venti anni dopo Ivan, divenuto un allevatore di falchi e a sua volta padre, raggiunge insieme alla giornalista Ressemore (Mélanie Laurent) la madre accampatasi coi suoi proseliti al termine di un lago ghiacciato, per domandarle perché l’ha abbandonato.
Claudia Llosa mostra questa ricerca di verità riprendendo con la camera a mano e impiegando per il montaggio un decoupage classico integrato con soluzioni tipiche del Lars von Trier di “Breaking the Waves”. La colonna sonora svolge una funzione di mero accompagnamento della storia evidenziando i passaggi narrativi salienti. Merita un elogio a parte la direzione della fotografia di Nicolas Bolduc che ritrae magnificamente la storia e i suoi luoghi, creando immagini lievemente sottoesposte, articolate su una palette cromatica che va dal celeste al bianco e si bilancia dai toni del legno.
A livello narrativo, il plot è temporalmente in bilico tra passato e presente per via dell’utilizzo di ampie analessi volte a dare gradualmente una risposta alle domande intorno alle quali cui si muove la vicenda. S’instaura così un sottile senso di suspense che accompagna lo spettatore fino all’ultimo.
La recitazione fornita dal cast di attori è esemplare.
Indubbiamente, Aloft è uno tra i film più interessanti della Berlinale sia per la complessità delle questioni che pone in essere, sia per il modo in cui queste sono rese cinematograficamente. L’immagine finale del film è indimenticabile e ci trasmette un messaggio difficile da comprendere e da accettare: a volte per vivere bisogna decidersi per l’oscurità.