Charlotte von Lengefeld, pur non avendo mai pubblicato niente mentre era in vita, scrisse per tutta la sua esistenza intrattenendo scambi epistolari con il marito Friedrich Schiller, con Goethe, con Charlotte Von Stein e con la sorella Caroline, a cui era legata da un rapporto totalizzante di forma quasi amorosa. Buona parte dei suoi scritti saranno raccolti dopo la sua morte insieme ad alcune edizioni delle opere del marito. Da questo corpus di opere Dominik Graf, veterano del cinema tedesco, prestato più volte alla televisione, costruisce un vero e proprio melodramma che tiene conto del punto di vista della stessa Charlotte, vero e proprio narratore implicito della storia d’amore che la legò, insieme alla sorella Caroline, al poeta tedesco Friedrich Schiller.
Parte di un progetto più lungo, che consta di almeno tre versioni, una destinata alle sale, una più lunga già pronta per la diffusione televisiva e questa di lunghezza intermedia vista alla Berlinale, il film di Graf cerca di rendere questa febbrile condivisione amorosa mettendo al centro la stessa materialità delle fonti che diventano veri e propri elementi del film nel suo farsi.
In questo senso Graf sembra quasi ricercare la forma documentale Rosselliniana, nella costruzione materiale del set, nell’attenzione agli oggetti e in un tentativo di trasformazione quotidiana dello spazio; mentre in direzione opposta si serve di un’astrazione affidata a continue sovrimpressioni, materializza la stessa scrittura in forma declamatoria, isola i personaggi in una serie di primi piani su sfondo neutro che ricordano per certi versi un altro interprete dell’immagine Storica, Alain Cavalier.
Ma in mezzo a tutto questo c’è moltissima incertezza televisiva, quella di un livellamento drammaturgico dello spazio già assorbito da anni di Rede Globo; insomma il proliferare di zoom a schiaffo, il montaggio che accellera in forma funzionale, le sovrimpressioni tra scrittura, segno, corpi e narrazione come via possibile per un cinema epistolare, non ci sono sembrati quasi mai dalla parte, per esempio, della stratificazione vorticosa del cinema di Julio Bressane ma neanche da quella del cinema degli anni sessanta.
Se l’operazione di Graf mantiene un livello di onestà filologica spesso molto alto, questo si traduce anche in una forma divulgativa non troppo distante dal linguaggio televisivo, quello “brutto”.