Christophe Gans torna alla regia a sette anni di distanza dal sorprendente Silent Hill con un progetto che ne contiene almeno due bloccati e rimandati; la scelta di canalizzare a un certo punto tutte le energie sull’adattamento dal testo originale di Madame De Villeneuve viene condivisa con il produttore Richard Grandpierre, già con Gans per “il patto dei lupi“, per recuperare uno spirito magniloquente tutto francese che in qualche modo si riferisse al bagaglio culturale e cinematografico “fantastico” di autori come Marcel Carnè e Serge de Poligny e che allo stesso tempo affrontasse l’ingombrante eredità del film di Cocteau andando a cercare quegli elementi non approfonditi dal grande regista francese rispetto al testo originale.
La belle et la bête, oltre ad una fedeltà maggiore al testo, porta quindi con se tutta la nuova sperimentazione sul digitale affrontata da Gans in questi anni di tentativi mai andati a buon fine, e punta alla relazione tra la Bella – Lèa Seydoux – e la bestia – Vincent Cassel – accentuandone toni e confronto con un’attenzione maniacale ai colori, alla morfologia del set e alle mutazioni mostruose della natura, tanto che l’amore per Mario Bava ancora è molto presente nell’immaginario del regista francese, basta pensare a come viene trattata tutta la parte relativa alla maledizione toccata in sorte alla bestia, qui accentuata in una direzione gotica mentre nel film di Cocteau è praticamente ridotta all’osso.
Ma non è solo su queste coordinate che il film si muove, perchè l’interesse di Gans sembra davvero fortemente ancorato ad un’idea sperimentale del colore e allo stesso tempo ad un cinema che affronta la mutazione come una coreografia infinita in movimento. I riferimenti sembrano quelli del cinema di Powell & Pressburger, più volte omaggiati con una serie di citazioni esplicite, non solo “Scarpette Rosse” o “I Racconti di Hoffman” ma anche “Gone to Earth”; dai due cineasti inglesi Gans sembra tradurre il dialogo reciproco tra musica e immagine, ovvero il modo in cui il movimento e il colore diventano variazioni intimamente musicali.
La belle et la bête è anche un vertiginoso film di specchi, di immagini riflesse, di passaggi da uno stato all’altro dell’immagine, su cui Gans insiste in modo quasi claustrofobico, traducendo questo passaggio alla maturità sessuale e affettiva con un’attenzione alla sintesi simbolica davvero notevole. Girato in parte agli studi Babelsberg di Postdam, con la ricostruzione di set virtuali, e con molti footage “live” realizzati nel parco Sanssouci, sempre a Postdam, e nelle foreste che circondano Berlino, grazie anche al lavoro di production design di Thierry Flamand, insiste sul contrasto tra un’immagine bianca e glaciale e le tonalità del rosso che lentamente infestano l’inquadratura; se a volte si attarda su alcune soluzioni “creaturali” offerte dall’animazione digitale, come per esempio i piccoli mostri che abitano il castello della Bestia o il cerbiatto in CGI, riesce comunque a mantenere questo rigore oscuro e di derivazione gotica, rielaborandolo alla luce di un’estetica “visual” assolutamente emozionale.