Parliamo con lieve “ritardo” di Nymphomaniac, il primo “volume” dei due in cui è diviso l’ultimo lavoro di Lars Von Trier, presentato qualche giorno fa a Berlino 64 nella versione “director’s cut” di 145 minuti; lo abbiamo visto da poche ore, nella giornata conclusiva del Festival e tutto sommato il raffreddamento sembra si addica perfettamente al film marmoreo e inerte del regista danese.
Sulle note di “Führe mich” dei Rammstein le immagini di un borgo notturno durante una precipitazione nevosa; subito dopo apertura verso un vicolo dove Joe (Charlotte Gainsbourg) viene trovata da Seligman (Stellan Skarsgard) quasi priva di sensi, con il volto insanguinato e pieno di lividi. L’uomo la porterà a casa sua, riscaldandola con del tea e offrendole una torta, dando così inizio al racconto della donna che come nei classici della letteratura erotica, selezionerà alcuni aneddoti stimolando una riflessione dialettica con il maturo signore che le ha salvato la vita.
Attraverso cinque capitoli, Joe si definirà Ninfomane, accentuando un senso di disagio e di malattia che Seligman smonterà di volta in volta con un saggio e sistematico attacco all’idea di peccato, utilizzando alcune strategie del pensiero tra filosofia, scienza, teoria musicale, la successione di Fibonacci, Bach e il Cantus Firmus e prima fra tutti, la tecnica del “fly fishing”, ovvero l’utilizzo delle mosche come esche per la pesca, elementi che servono allo stesso Von Trier per sovrapporre testo, parola scritta, formule matematiche come segni grafici, found footage, in un’esperienza trans-mediale che non si discosta di un millimetro dall’operazione di marketing che ha promosso il film nei mesi precedenti al dicembre 2013.
In fondo, questa re-visione del montaggio delle attrazioni, che per Von Trier non è certo un trucco inedito, invita a guardare il suo cinema come un prolungamento di quel bombardamento “mediale” che piega la comunicazione verso il flusso dei nuovi sistemi connettivi; una provocazione “reale” perchè “condivisa” attraverso i network sociali, e che quindi diventa il film stesso ancor prima della sua fruizione e in seguito, durante la visione, grazie ad un’applicazione specifica e tutto sommato “rigorosa” di quello schema.
Il film allora non inizia mai, gira su se stesso e intorno ad un dispositivo analogico che giustappone immagini, senza che tra queste vi sia davvero qualcosa, pornografia inclusa.
Siamo ovviamente lontani dall’elegia del Culo di Brass, dal gioioso piede della Koll che stuzzica cazzi, dall’imperfezione ingenua dei fuochi d’artificio nel cinema di Gerard Damiano, dalla de-genderizzazione del porno in rete, e molto più dalle parti degli uccelli di gomma della Fura Dels Baus, specializzata in baracconi del con-senso del tutto circensi; non è un caso che per giustificare i pompini e le penetrazioni di Nymphomaniac si sia insistito sulla doppia crew impiegata, gli attori “tradizionali” e un manipolo di professionisti del porno pronti a sostituire i corpi proprio quando questi avrebbero potuto riscaldarsi e rischiare di persona.
Non si contesterebbe a Nymphomaniac il fatto di aver scelto una via necrofila, aspetto che se fosse reale non ci avrebbe affatto scandalizzato, ci stupisce che una critica a caccia di “concetti” e forse amante di un cinema dal fiato corto, non si sia sentita presa amabilmente per il culo da una macchina del senso chiusa, normativa e retorica come questa; un cinema di regime che con l’ansia di metterci un dito in culo quasi fosse un gesto anarco-punk, rimane ad una distanza siderale dai corpi e dalla vita, anche quella più dolorosa, separandosi in una sorta di dimensione di sicurezza, aristocratica e giudicante, che proietta immagini lontane, al di là dello schermo.
Christian Slater sul letto di morte per una malattia dolorosa che lo spinge verso il delirio, la figlia è la giovane Joe, interpretata da una Stacy Martin che fino a quel momento ha espettorato sperma fasullo (Sasha Gray, alla sua età, si era già messa in gioco totalmente). Mentre osserva le piaghe da decubito del padre, la merda che macchia il suo corpo, le infermiere costrette a pulirlo quando ha ormai perso ogni dignità, decide di alleviare dolore e disperazione scopandosi un infermiere di turno.
Senza quel gioco cinico-ironico, pop e finto-godardiano che ha attraversato le immagini del film fino a quel momento, Von trier presume di cambiar tono usando in fondo le stesse strategie, ovvero giustapponendo le immagini; disinteressato a quello che potrebbe accadere agli attori se fossero lasciati liberi di ostacolare il suo “regime” autoriale, li sostituisce immediatamente con le controfigure di cui parlavamo; tra la merda che copre Slater e il cazzo che penetra la Martin non c’è nessun spazio, non c’è neanche il vuoto che ti toglie improvvisamente il fiato, solamente una martellata in pieno volto, un occhio che ti scopa, un peek-a-boo.