A tre anni di distanza da Knifer, il regista Greco Yannis Economides, torna a dirigere un “noir Mediterraneo”, come lui stessso lo ha definito attraverso le note stampa del film. Stratos è uno degli operai di un forno di Atene; in questa vita, il suo volto scavato e impassibile osserva gli abusi quotidiani sul posto di lavoro, in quella parallela è un killer prezzolato dalla mafia, dalla fama leggendaria per sangue freddo ed efferatezza. Al servizio di un boss chiamato Painter, deve riscattare un debito di gratitudine con un secondo capomafia; quando infatti Stratos scontava una pena per omicidio, Leonidas gli aveva salvato la vita, adesso spetta a lui far uscire il boss di prigione, racimolando il denaro necessario per organizzare un’evasione senza precedenti, attraverso lo scavo di un tunnel adiacente al carcere.
In un’Atene spoglia e desolata, Stratos comincia a trarre giovamento dalle vendette parallele della mafia locale, collezionando un’esecuzione dopo l’altra, in un contesto che Economides da già per degradato. Non c’è in fondo differenza tra il forno dove lavora, teatro di abusi ormai considerati comuni; quello della famiglia, dove si può barattare una minorenne per un debito contratto; quello degli affari, dove lo strozzinaggio è semplicemente una via per mantenere in piedi un’economia auto distruttiva; quello della mafia, dove l’odore del sangue è l’unica condizione per sentirsi vivi.
Economides alterna le immagini di un paesaggio inerte e senza vita, ad una serie di monologhi surreali basati sulla ripetizione, che evidenziano l’autismo della violenza, l’inferno di un’ossessione ormai basica che azzera completamente il pensiero e trasforma la parola in un fonema gutturale, un rantolo fatto di necessità e stupidità.
Sono abbastanza chiare le intenzioni del regista greco, legate al depotenziamento della tensione; Stratos è un film costruito per quadri assolutamente statici, dove la postura, il dialogo, la collocazione dei corpi, sono una mimesi di un dispositivo pulp, ma completamente svuotato delle sue funzioni dinamiche. Basta pensare al dialogo tra Stratos e Painter, dove il secondo chiede ossessivamente al primo di descrivergli una delle sue violente prodezze; Stratos, sempre silente, osserva questo animale ripetere le stesse parole “dimmi come lo hai fatto a pezzi, dimmi come lo hai massacrato, dimmi come lo hai smembrato”; un teatrino della violenza che viene ellitticamente rappresentato attraverso i volti, i corpi e i suoni di questi personaggi mostruosi.
Alla chiarezza di intenti corrisponde purtroppo una staticità posturale che è un po’ il limite di certo nuovo cinema Greco, sin troppo ancorato alla concertazione del simbolo applicato su di uno sfondo sociale; il sangue di una Nazione raggrumato in un Cinema che non palpita.